Home DEGUSTAZIONI VINO Apparita, una storia d’amore lunga trent’anni (e 30 bottiglie)

Apparita, una storia d’amore lunga trent’anni (e 30 bottiglie)

Una straordinaria degustazione di 15 annate del merlot di Castello di Ama, la creatura di Marco Pallanti e Lorenza Sebasti: ecco le migliori

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Quella dell’Apparita è una storia di vino straordinaria. Con al suo interno, avvitate l’una nell’altra, come in una specialissima matrioska, una serie di storie d’amore. Per un territorio tra i più belli d’Italia, uno dei più fascinosi e vocati dell’intero magico universo del Chianti. Per un mini borgo trecentesco che, recuperato, diventa cantina (ma la parola è riduttiva), casa, piccolo ed esclusivo resort, ma anche centro permanente di allocazione ed esposizione di pezzi d’arte contemporanea, firmati da artefici straordinari e sapientemente intrecciati con la saga enoica di cui il luogo è epicentro. E poi, c’è la storia tra i due protagonisti. Quelli che la saga fatta di arte e di vino hanno creato e alimentata. Lui, Marco Pallanti, enologo di rango e primattore delle scelte decisive operate in campo e in cantina (e premiate da memorabili successi); lei, Lorenza Sebasti, la titolare, altrettanto motivata e forte nelle sue scelte di impresa e di vita. Due che a un certo punto, a furia di amare le stesse cose, di farle insieme, e per giunta in un posto dal nome fatale (il borgo, che dà anche il nome all’azienda, si chiama Ama) si ritrovano innamorati. Così tanto, e così a lungo che lei, sull’etichetta speciale (colorata d’argento, come si conviene per una data del genere) del Chianti 2006, che è quello della vendemmia numero 25 per Marco (che intanto ha sposato da un pezzo e con cui condivide oltre ad Ama, tre figli) decide di riannunciarlo a tutti. Su ogni bottiglia che va in giro per il mondo (e quelle del duo girano, e come…) c’è scritto: “Grazie Marco per questi 25 anni insieme. L.”.

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Ora gli anni si sono allungati. E sono 30 (anz, già 31, a esser proprio fiscali) quelli del vino che della storia ha marcato più di tutti – e più clamorosamente – gli inizi e ne ha illuminato prepotentemente la parabola. Era il 1991. A Zurigo, Svizzera, terra di tesaurizzatori, collezionisti e mediatori di ogni bene prezioso, inclusi i grandi vini del mondo, si assaggiano in modo competitivo e alla cieca, in un contest dedicato, i venti Merlot più celebri e gloriosi (nonché costosi) del mondo. A partire, ovviamente, dalle leggende francesi targate Bordeaux. Primo fra tutti, il mitico Chateau Pétrus. Talmente blasonato e richiesto che chi lo vendeva aveva imposto un sistema che i distributori e dettaglianti, rassegnati, chiamavano la “piramide di Pétrus”: ovvero, per ogni bottiglia del prezioso rosso (che arriva a costare oggi dai 2000 a oltre 3000 euro al pezzo) ricevuta in assegnazione, occorreva acquistarne quantità in progressione geometrica di altre di altri marchi assai meno illustri, ma della stessa “scuderia”.

Ebbene: clamorosamente, a Zurigo, l’outsider targato Ama, un Merlot italiano e toscano, annata 1987, figlio di particelle di vigna piazzate a quota 500 metri (roba inusitata per Bordeaux), meno di 3 ettari appollaiati al margine superiore di uno splendido pendio da Chianti (non a caso battezzato Bellavista) ma dove fino a qualche anno prima prosperavano niente meno che Malvasia Bianca e Canaiolo (reinnestati tra l’82 e il biennio seguente con la varietà bordolese per intuizione di Pallanti) sdraia il Pétrus 1988. Lo batte. E vince il challenge. Un botto, e uno spot fantastico per il risorgente vino italiano, che da un quinquennio, dopo la luttuosa disavventura dello scandalo del metanolo (1986, una storia di adulterazione finita con vittime e casi di cecità) aveva caparbiamente iniziato la rimonta, innescando la parabola che l’ha portato dov’è oggi. Per il marchio, il Castello di Ama, è un’esplosione ai limiti della santificazione. E, ovviamente, lo è ancor più per quel vino anch’’esso dal nome profetico: L’Apparita, apparso a Zurigo per imporsi su una eno-leggenda. Tanto è il successo (e poco il vini: oggi 5-6000 bottiglie in tutto nelle annate buone) che i soliti enotecari e aspiranti compratori ribattezzano il Merlot del duo “La Sparita”.Perché tra la produzione limitata e saggiamente mai espansa, e il boom di richieste, trovarla era diventato tutt’altro che facile.

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Trent’anni dopo la prima Apparita, e con il successo e l’allure mai interrottisi, il duo Sebaste-Pallanti ha giustamente deciso di festeggiare il rampollo che ha dato il via alla saga (arricchitasi lungo la strada di cru di Chianti ormai praticamente altrettanti celebri). A Firenze, al Four Seasons con una grande “verticale”, 15 esemplari su 30, dieci(2007, 2006, 2005, 2001, 1999, 1995, 1993, 1990, 1988, 1986) in degustazione tecnica guidata dall’autore, cioè da Marco Pallanti, e cinque (di cui quattro, cioè 2008, 2004, 2000 e 1997, presentate in formato 3 litri, e la più recente, la ancora quasi “vergine” e giovanissima 2011 in bottiglia “regolare”) durante una cena affidata all’estro e ai saperi di Vito Mollica, bravissimo chef resident dell’hotel. Una cavalcata straordinaria. Una festa riuscita. E un viaggio nel tempo e nella storia del nuovo vino italiano dal livello medio assolutamente sensazionale. Ma con cinque annate-gemma (le annate del cuore, tanto per restare agganciati alla storia d’amore) scelte e recensite in dettaglio dal sottoscritto. Volutamente, senza indicare punteggi. Sarebbe quasi un sofisma mettersi a disquisire, in questo caso, su una frazione o due di differenza. Per capirci, diciamo che, punteggiando in centesimi, la media del quintetto è facilmente al di sopra di quota 95. Basterà?…

 

Le annate del cuore:

 

2006:

meno impetuosa e ampia, meno rotonda ed esuberante di frutto (perché climaticamente meno calda) del pure fascinoso 2007, questa Apparita ha però un’eleganza unica, sfilata e longilinea (ma tutt’altro che esile o stenta), tessuta di note accennate di tabacco e sottobosco innestate su spezia e ciliegia macerata. Un vino “dancer”, fine, armonico e preciso

 

1999:

a stupire è la freschezza quasi nordica. Un bordolese del Chianti che si conquista con l’altezza (e le stimmate d’annata) quel che lassù danno latitudine e suoli. Non è stato facile, il ’99. Neve a Pasqua, e 30% di potenziale produzione persa. Poi piogge stucchevoli. Fino a quando un cuore caldo d‘estate e una coda settembrina bellissima hanno risolto. Aprendo la strada a un vino dal sorso meravigliosamente vivace, mai stancante. Di quelli per cui (ad avercene) il fondo della bottiglia è traguardo ineluttabile… Bacca di rovo, sorba, piccoli frutti rossi, incenso e un ricordo d’arancia rossa nel bouquet. Un’Apparita vibrante .

 

1993:

annata due volte speciale. Perché è un millesimo outsider, non uno di quelli all’epoca giudicati top, o (come si sparava allora quasi ogni volta) potenziale “annata del secolo”. E anche perché questo ’93, bevuto sette anni dopo l’uscita, aveva già lasciato un’impressione profonda in chi scrive. Riassaggiato ora, partito in sordina come allora, con un approccio non imperioso ma golosissimo (sensazioni di cannella e confetto, frutta buona e impatto che via via recupera anche il larghezza, oltre che in profondità, al palato) diventa semplicemente delizioso.

 

1990:

la parola giusta è “spaziale”. Per integrità, sfericità, accoglienza avvolgente e calda, ma senza un sintomo di ammorbidimento eccessivo o peggio di flessione. Il ’90, annata celebrata da subito, di quelle che il vignaiolo e l’artigiano del vino sognano perché il loro intervento può limitarsi al minimo (si tratta di accompagnare, di non guastare e alla fine, se tutto è ok, di applaudire) onora il suo blasone, ma ancor di più esalta quello della vigna speciale d’altura e di chi la conduce. Pur maturi e luminosi, non tutti i ’90 sono così. Da incorniciare.

 

1986:

è il “grande vecchio” della serata, figlio per giunta di un’annata, fine sì, ma certo non valutata all’epoca come la ben più imperiosa ‘85. Ed è una straordinaria sorpresa (ma non poi troppo per chi conosce il terroir che l’ha generato, assistito da un eno-ostetrico del livello di Marco Pallanti).Tessitura olfattiva e gustativa senza lacerazioni, strappi o “macchie” ossidative sfiguranti. E sensazione golosa, satrapica ancora per abbondanza e varietà di spezia. Un esempio di terza età strafelice. Da augurare a tutti…

 

 

( Fonte La Repubblica )