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Vino: addio lieviti globalizzati, ecco la fermentazione “su misura”

Vitigno, suolo, esposizione, origine, annata, vinificazione. Cosa fa la differenza in un vino e lo rende unico? L’ultima frontiera dell’innovazione enologica sono i lieviti “personalizzati”.

 

Ovvero, valorizzare il vino sfruttando la microbiologia del territorio per ottenere un prodotto esclusivo, non imitabile e fatto su misura, attraverso un approccio nuovo alla fermentazione: lo studio e la selezione dei microrganismi che danno il via al processo di vinificazione. La ricerca ha dimostrato, infatti, che l’analisi della biodiversità presente nella microflora spontanea, residente all’interno di una filiera produttiva, può far emergere lieviti in grado di apportare tratti innovativi ed esclusivi anche in prodotti ‘maturi’.

 

Anche i lieviti sono global

 

“E’ prassi comune in enologia – spiega Antonio Del Casale, socio fondatore e presidente di Microbion, spin off dell’Università di Verona che si occupa di microbiologia applicata all’agri-food – aggiungere lieviti per controllare e guidare la fermentazione dei vini. Ma, a differenza dell’enorme varietà di vino in commercio, il numero di ceppi di lieviti venduti si restringe a poche unità. Si assiste quindi a un appiattimento della biodiversità: dall’Italia all’Australia alla California, quasi tutte le cantine utilizzano gli stessi tipi di lieviti. Negli ultimi anni, invece, alcuni produttori si sono interessati allo sviluppo di lieviti propri e differenti a seconda della Doc”.

Ma davvero i lieviti da soli riescono a fare la differenza tra vino e vino? “Direi di sì – risponde Del Casale -. Prova ne è l’Amarone della cantina Masi, pioniera di questa ricerca, per cui abbiamo sviluppato lieviti con caratteristiche in grado di valorizzare aromi particolari e specifici, con un risultato finale diverso da tutti gli altri Amaroni della stessa zona”. Gli studi condotti fermentando la medesima massa di mosto con ceppi microbici differenti, a parità di condizioni, hanno infatti dimostrato che il singolo ceppo, attraverso la sua peculiare attività metabolica e enzimatica, può esaltare singole note aromatiche.

 

Il progetto sull’Amarone Masi

 

Profondamente radicata in Valpolicella, a metà degli anni 2000 Masi Agricola (realtà leader nell’Amarone, con 64,5 milioni di euro di fatturato nel 2013 e 12 milioni di bottiglie prodotte) ha iniziato questo percorso in collaborazione con l’Università di Verona. Ma è solo con il progetto 2011-2012 realizzato dal Gruppo Tecnico Masi con il Dipartimento di Biotecnologie della stessa università e Microbion, che l’attenzione si è finalmente focalizzata sullo studio delle proprietà tecnologiche di tre ceppi autoctoni ritenuti buoni candidati a diventare starter enologici.

“Abbiamo sempre lavorato sul tema identitario, anche attraverso la riscoperta e valorizzazione di uve autoctone – spiega Raffaele Boscaini, coordinatore del gruppo tecnico Masi. Il progetto sui lieviti, però, è nato per risolvere un altro problema: la difficile fermentazione dell’Amarone, ostacolata dall’alto grado alcolico prodotto dagli zuccheri presenti nelle uve passite e dal freddo, poiché la fermentazione inizia in pieno inverno. Capitava spesso, quindi, di trovarsi con fermentazioni che non completavano e riprendevano in primavera, lasciando nel vino aromi non gradevoli e costringendo a lunghi invecchiamenti in botte per recuperare”. Dagli anni ’80 si è così iniziato a introdurre lieviti commerciali selezionati, capaci di portare a compimento la fermentazione anche con temperature basse e alto grado alcolico. Finché dopo anni di ricerca presso le proprie cantine sono riusciti a individuare e sviluppare dei lieviti naturali particolarmente adatti al loro vino. Che, oltretutto, così acquistava anche una caratteristica organolettica di valore e unicità, non essendo replicabile da nessun altro.

“Ci sono pochissime cantine al mondo che possono vantare il proprio lievito – dichiara Boscaini – e quindi capaci di esprimere note e aromi inimitabili. Ormai, dal 2012 utilizziamo i nostri lieviti per tutta la produzione, compresa quella in Argentina, con formule diverse a seconda del tipo di vino. Sono diventati la nostra firma. Senza contare la soddisfazione di aver fatto da apripista per quanti oggi ci chiedono la licenza a utilizzare il lievito da noi brevettato”.

Unico nodo da sciogliere è, però, la burocrazia italiana: trattandosi di un metodo nuovo, ancora manca una regolamentazione ad hoc e delle corrette denominazioni in etichetta, che molto aiuterebbero il marketing e la chiarezza nei consumatori.

 

 

( Fonte Il Sole 24 Ore )

20/01/2014 ore 8,00