I cinesi hanno inventato i bastoncini per tenere una mano libera mentre mangiano, riservandola per secoli alla sigaretta.
Da ieri, almeno in pubblico, a Pechino potranno destinarla a nuovi bisogni: il cellulare, il pc, o un bicchiere di vino, primo tra gli status di tendenza. È la guerra più incerta della sua storia, ma la capitale cinese intima ai venti milioni di abitanti, un quarto dei quali fumatori cronici, di spegnere l’adorata cicca. Non solo non possono più aspirare nicotina nei luoghi pubblici: la vendita del tabacco è stata bandita a meno di cento metri delle scuole e le tasse appesantite dal 5 all’11 per cento. Se il presidente Xi Jinping avrà la forza di far rispettare il divieto, impresa fallita da Mao Zedong e nemmeno tentata da Deng Xiaoping, anche l’aria di una delle metropoli più inquinate del mondo risulterà un po’ meno irrespirabile. La sfida non è però solo verde, suggerita da salute e ambiente. È anche rossa, ossia politica. Togliere la sigaretta di mano a un cinese è come allontanare il bicchiere di vodka dalla bocca di un russo: causa disperazione si rischia una rivolta di massa, o un’umiliante alzata di spalle collettiva dei compagni. Sull’ordine “no smoking”, più ancora che sulla caccia ai funzionari corrotti, il nuovo leader si gioca così la faccia e misura la forza del suo pugno di ferro. Fumare o smettere, all’esterno della Città Proibita, equivarrà anche silenziosamente a obbedire o a dissentire, a sostenere con l’astinenza il partito- Stato, o a rivendicare una pur tossica libertà personale. Prudenza fino a ieri, grazie a vizio e business, resistente ad ogni autoritarismo. In Cina i cultori della sigaretta sono oltre 300 milioni e rappresentano il 36 per cento di quelli che respirano sulla terra. Il monopolio di Stato, in parte smantellato a febbraio, fruttava il 7 per cento delle entrate fiscali. L’Oms calcola che 1,3 milioni di cinesi muoiono annualmente per malattie correlate al fumo. A questi si aggiungono 100 mila vittime del fumo passivo
( Fonte la Repubblica)