Ci pensavo l’altra sera, San Martino: la festa degli spiedi. Le suggestioni calamitano i ricordi. La memoria spalanca scenari fumosi e intriganti. Si intravedono beatitudini da tavola grassa e bottiglie generose.
Il posto è Treviso. Bresciano per intendersi.
Tutto in tre frazioni e cascine sparse. Qualche roccolo appollaiato sui passi.
Una chiesa e un cimitero a sormontare, quasi come un roccolo, un cucuzzolo poco discosto.
Sprofondata in basso, verso Vestone, la Valle dei Morti. Discarica d’appestati d’altri tempi.
E così spiedi, cimiteri, eccitazioni alcoliche e flagelli da secoli bui hanno cominciato a frammentarsi e ricomporsi in emozioni indistinte.
Alla fine, immagini in dissolvenza e un nome a risuonare come gli echi di un alpeggio: Perlònc. Il Perlònc. Dal Perlònc.
Capiterà, prima o poi, che per via del passaparola popolare e della genialità di qualche cartografo si trasformerà in un toponimo vero e proprio.
Già, perché Perlònc è un nome, ma anche un posto, la meta di un appuntamento, uno spazio da ristoro a cui accedere risalendo tornanti angusti e boschi di nocciolo.
Più di trent’anni fa ci si andava per mangiare semplicemente… vergôt .
L’accoglienza era essenziale. Una stalla, un fienile, una cantina e un bugigattolo con uso di cucina.
Gianni Perlònc era il contadino cordiale che tagliava il salame e metteva la polenta ad abbrustolire sulla graticola.
Alla fine un disarmante imbarazzo. Faceva fatica il Perlònc a tradurre in moneta la sua ospitalità.
La sazia gratitudine dei commensali quantificava poi alla buona la discrezionalità di un piacere fatto più di simpatia che di un vero e proprio apprezzamento gastronomico.
Mi ricordo una stagione singolare.
Primavera del ’75: tempo di elezioni. Elezioni d’altri tempi. Quelle ancora impastate di pulsioni stravaganti e dedizioni assolute.
Oggi può sembrare bizzarria, ma è un fatto che allora, in un valle che architettava strategie politiche in sommessi conciliaboli da sagrestia o nei consigli di amministrazione di banche cooperative, lievitò inatteso un fervore militante che tracimava dappertutto.
Perfino nelle località più impervie.
A rastrellare illusioni di consenso fra montanari cortesemente attoniti e atavicamente diffidenti.
C’era un popolo di sinistra, giovane e vagamente acculturato, che al tramonto, quando i contadini smettevano di regolare il fieno e le vacche, si avviava inerpicandosi per le malghe d’alta quota a divulgare le lusinghe della propaganda comunista.
Ansimavano scalcagnate R4 e beccheggianti Due Cavalli fra le struggenti e composte solitudini di Presegno, di Magasa, di Eno, di Valvestino, di Valle Dorizzo.
Scarpinate polverose, cani catarrosi e minacciosamente nevrotici, richiami indolenti.
Ogni poco un vinello scolorito e acidulo ingurgitato tanto per non urtare suscettibilità montanare.
C’era una grande sopportazione per quei sacrifici. Si sapeva che, dopo tutto quell’immolarsi per la causa, a una certa ora ci si ritrovava dal Perlònc.
Si arrivava alla spicciolata, ma lui imbandiva ugualmente per tanti.
Imbandiva, si fa per dire.
Nel vociare disordinatamente eccitato e con lo sfrigolio in sottofondo delle lampade a gas, il Perlònc disponeva su un tavolo imponente e manifestamente vissuto, cataste di piatti e grovigli di coltelli e forchette.
Ognuno poi estraeva dal mucchio, come capitava, la sua personale dotazione di stoviglie.
La casualità dell’armamentario finiva per conferire un decoro più alto alle vivande che si esibivano nella nuda schiettezza delle loro forme primarie, senza indulgenze per fronzoli e guarnizioni.
Il caprino era il caprino. La pancetta, la pancetta. Il radicchio, il radicchio.
Solo lo spiedo camuffava la varietà dei componenti nell’amalgama unificante del burro sapientemente fuso e cosparso nei tempi interminabili della cottura.
Per la verità lo spiedo era un evento raro e normalmente imprevisto.
Se si saliva di lunedì o di martedì poteva capitare di riciclare gli avanzi della domenica. Magari freddi e un po’ rinsecchiti. Ma il popolo militante era di bocca buona e, in ogni caso, la suggestione era tale da assicurare fragranza e gustosità perfino a certe minestrine frugali dove galleggiavano piccoli sciami di risoni scotti, sparute frattaglie di pollo e fagottini di grana collosi e filanti.
Il vino era senza nome. Rosso. Anzi nègher. Appena appena schiumante in certi fiaschetti di paglia ombrata e sdrucita.
Si mandava giù e basta.
Negli anni non mi ricordo di averne trovato di più inebriante.
Puntualmente si finiva a squarciagola con quei canti paccottiglia di rabbie proletarie, oscenità proletarie, sberleffi proletari, vagheggiamenti proletari.
Il Perlònc si sistemava in un angolo, riattizzava il fuoco, sorvegliava il livello dei fiaschi e forse, al riparo di quella corazza impenetrabile di montanaro disincantato, intonava anche lui qualche ritornello rivoluzionario.
Negli anni il contadino ospitale con uso occasionale di cucina si era evoluto.
La gente saliva sempre più numerosa. La gente giusta che si trascinava dietro i conoscenti giusti per condividere la scoperta di un posto giusto.
Il “vergot “ delle scombinate combriccole dei compagni era asceso a piatti da ordinare prudentemente con qualche giorno di anticipo.
Lo spiedo del Perlònc. La tiragna del Perlònc. La trippa, la formaggella, i sanguanì, la crostata del Perlònc.
Più che un nome, Perlònc era diventato una definizione attestatrice, un marchio di qualità, un valore aggiunto che richiamava e compiaceva gli smaniosi protagonisti di una trasformazione epocale.
Quasi una rivoluzione che aveva decretato il declino della confraternita dei tondinari e l’emergere di una miriade di artigiani piccoli e piccolissimi. Tutti ugualmente vogliosi di tradurre in qualità di vita i sacrifici, il lavoro frenetico e l’anelito ad un accreditamento sociale.
E’ un fatto: più salivano i manigliai, più si diradava il popolo di sinistra.
La gastronomia degli ex militanti aveva cominciato a profumare di cultura.
Le bottiglie non contenevano banalmente del vino, ma custodivano gli esiti di prodigi enotecnici, distillati di messaggi criptici, rimandi antropologici, ispirazioni liriche.
In una parola le cene di sinistra erano diventate un laboratorio del gusto raffinato e pensoso.
Una palestra dove nobilitare le frustrazioni del riflusso politico in futili esercizi di mimetismo sociale e di edonismo saccente.
Arci gola, slow food, saloni del gusto. Tante sigle per mascherare la voglia di dare credibilità al gioco dell’evasione scapigliata e all’esigenza di animare l’ordinario piattume del disimpegno.
C’è da dire, però, che una volta o l’altra, magari con intenzioni dichiaratamente minimali, del tipo: un panino e due calici, era rinfrancante posare il culo su quelle panche che avevano generosamente sopportato concitazioni, vaneggiamenti e fraternità alcoliche d’altri tempi.
Si entrava sempre un po’ circospetti nell’osservare luoghi familiari popolati da facce estranee. Per lo più ripulite e cittadine.
Ma poi si zoomava su faine, galli cedroni, poiane e volpi impagliate.
Sul poster plastificato dei funghi buoni e di quelli cattivi.
Sui gadgets vetusti e sciatti dell’osteria di un tempo.
E si annullava ogni diffidenza.
Il momento magico, quando Gianni lasciava i fornelli e le grigliate per fare un saluto ai vecchi amici.
Non erano grandi discorsi, ma si godeva del privilegio del riconoscimento.
Dell’essere interpellati confidenzialmente, col garbo e la mitezza che cadenzavano quel suo parlare pacato.
Del poterlo chiamare Gianni a dispetto di quel nomignolo ormai universalmente noto. Del sentirsi a casa.
Il Perlònc ristoratore indossava il grembiule da cuoco, ma gli avambracci ipertrofici tradivano l’identità immutabilmente ruspante delle origini.
Così, la fedeltà all’essenza di uno stereotipo inscritto nella memoria annullava il tempo e restituiva i sapori di atmosfere andate.
La merenda mutava, replicandosi in forma esponenziale. Le due fette di salame aprivano la strada all’abbuffata, con la sazietà che arrivava solo dopo che i fiaschi erano dilagati ad ogni angolo del tavolo.
Ultimamente il Perlònc si stava allargando.
La cascina originaria, tutta gibbosità scrostate, legni slavati e i graniti a impreziosire i rari davanzali, stagione dopo stagione veniva fagocitata dal grigio levigato del cemento armato, dalle convessità allineate delle grondaie in rame, dalle ampie vetrate Termopan che incorniciavano le cime dei castagni e le fumosità lontane della campagna mantovana.
Dopo tanta laboriosità rifluita nel progredire misurato del contadino schivo, forse il Perlònc progettava una vecchiaia agiata.
Magari con qualche concessione alle esteriorità appaganti del benessere.
Credo che lo meritasse. Non c’è riuscito.
In poche settimane un tumore, di quelli che la gente dice “senza misericordia“, lo ha risucchiato, lasciando i suoi occhi trasparenti a spegnersi increduli sul faccione scarnificato.
Accalcati dentro e fuori la chiesa di San Martino si era in tanti quel pomeriggio di gennaio.
Qui e là si scorgevano facce di altri tempi.
Ogni tanto un cenno di intesa tra ex frequentatori di un posto che ci aveva omologati, quasi accomunandoci con il filo esile dell’appartenenza.
Sull’ardesia del sagrato, lungo il minuscolo viale che porta al cimitero, i capannelli non indulgevano al parlottio di circostanza.
La commozione ristagnava rarefatta in quei silenzi che amplificano gli echi dell’anima.
Mi venne da pensare alle radici profonde di certi sentimenti nati casualmente attorno ad una tavolata, nella vaghezza un po’ sbracata di affratellamenti senza passato e senza seguito.
Sentimenti quasi futili, ma capaci di immortalare le premure generose di un oste contadino con l’affetto duraturo delle memoria care.
( Fonte Pino Greco / www.vallesabbianews.it )