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La propagazione della vite, considerazioni molto interessanti

Leggo sul blog dell’ Espresso un articolo sulla propagazione della vite, ne è seguito un appassionato ” dibattito ” via web, ho trovato molto interessanti i due spunti di altrettanti produttori Roagna in Piemonte e Gianpaolo Paglia di Poggioargentiera.

Buona lettura

RG

 

 

 

” Niente sesso, siamo francesi

Philippe Pacalet è una piccola leggenda per molti borgognofili; e forse nemmeno tanto piccola. Fa vini molto originali e divide gli appassionati di vino in sostenitori entusiasti e detrattori implacabili. Io, per un lieve residuo cerchiobottista, sto nel mezzo. Ho bevuto, sue di lui, bottiglie magnifiche, e altre generatrici di alcuni punti d’interrogazione.

Sta di fatto che il Nostro è anche e direi soprattutto un attento studiatore di vigneti. Pochi giorni fa ho letto nel sito di Le Monde un illuminante articolo sulla sua opera. La tesi di Pacalet è che finora l’attenzione dei produttori si sia concentrata su un punto sbagliato, cioè sul suolo e i problemi relativi: debolezza da eccesso di chimica, sterilità da inquinanti e dal compattamento dei mezzi meccanizzati, eccetera.

“Il problema non è il suolo, è la pianta”, sostiene invece il Nostro. Pianta che da secoli non viene più lasciata riprodursi per via sessuale, ma in maniera “asessuata”, essenzialmente per propaggine (o margotta).

La data di svolta, guarda un po’ anche in questioni viticole, è il 1789.

“La Rivoluzione, svuotando i monasteri, ha interrotto la riproduzione sessuale delle vigne”. Prima, infatti, i monaci benedettini procedevano per semina, ciò che donava delle piante moltiplicate per fecondazione.

Il “materiale vegetale dell’intero vigneto francese” risale perciò a più di due secoli fa. Da qui, un po’ come accade – o accadeva – alle famiglie nobiliari che contavano molti individui malati per il continuo incrocio tra consanguinei, la fragilità delle vigne attuali.

Non essendo un ampelografo, non posso che leggere tali affermazioni con lo sguardo ebete (e con annesso rivolo di bava dall’angolo della bocca*) di chi ignora stupefatto. Ma così, a orecchio, mi sembra una strada interessante da percorrere per chi vuole produrre sempre meglio e in modo sempre più naturale. Qualcuno sperimenta già da anni la semina diretta anche in terra italica: per esempio la celebre famiglia Cappelano in Langa. Certo, a grandi linee pare un percorso pluridecennale, se non plurisecolare.

L’articolo completo si può trovare qui

 

( Fabio Rizzari )

 

Luca Roagna ( Produttore Piemonte )

Trovo l’articolo interessante perché non si parla sovente di piante. Sono un contadino di Langa, viticultore, come lo è mio padre e lo era mio nonno. A differenza di 40 anni fa, quando l’avvento della chimica fece danni enormi, oggi il rispetto per la terra sta aumentando e sempre più aziende utilizzano tecniche per il vigneto meno aggressive. Oggi tutti parlano di terra, Pacalet, che conosco e stimo, penso voglia spostare l’attenzione provocando, su un tema altrettanto importante.

Il mio punto di vista, per un buon futuro dei nostri appezzamenti, è differente da quello dell’articolo francese, che trovo utile, ma forse volutamente un po’ estremo: ricordo nel corso degli anni di aver assistito a espianti di vigneti storici un po’ in tutta la mia zona, alcune volte mi sono rattristato nel pensare che non sarebbe stato facile (forse impossibile) da quella vigna assaggiare la stessa qualità del vino dopo quell’atto. Penso alle bottiglie che mi han riempito il cuore di gioia nel corso degli anni, buona parte erano vini con tanti anni sulle spalle. In quei periodi la tecnica di cantina era quello che era, i vigneti somigliavano a dei boschi, ma se ancora oggi possiamo gioire di bottiglie del genere, forse quella era la giusta direzione. Mi chiedo se i nostri nuovi vini riusciranno a comportarsi come i grandi vini del passato. Non ne sono sempre sicuro e penso anch’io che quello che sta cambiando principalmente sono le piante e la loro età media.

Da quando esiste, la vite si è sempre moltiplicata per via sessuata creando nuove famiglie, cultivar, spesso enologicamente non interessanti, ma anche dando origine a tutte le varietà differenti che oggi conosciamo.

I nostri vecchi di Langa avevano vigneti con piante di Nebbiolo estremamente diverse, individui adattati da centinaia di anni a quella particella. Per moltiplicare sceglievano d’estate quelle con caratteri interessanti da propagare e dopo la potatura, con i legni appena tagliati si facevano le nuove viti. Si manteneva così una buona popolazione eterogenea. Oggi è facile confrontare e valutare quanto siano differenti i grappoli ottenuti da viti di vecchie selezioni massali rispetto alle nuove selezioni genetiche.

La ricerca degli ultimi anni si è orientata sui cloni, sicuramente portatori di caratteri interessanti, ma con il difetto di essere esattamente uno la fotocopia dell’altro.

I problemi che questo sta comportando penso siano molteplici: quando un vigneto, presente da centinaia di anni su una collina, lo si estirpa sostituendolo con un clone di provenienza estranea l’adattabilità e l’espressione del così abusato termine Terroir si riduce di sicuro. Un secondo svantaggio è il passaggio da una popolazione a un solo individuo moltiplicato infinitamente ed è facile immaginare la differenza nel prodotto finale.

Infine, la nota più dolente per noi contadini: se arrivasse una nuova epidemia una popolazione eterogenea avrebbe molta più possibilità di sopravvivere che una fatta da cloni.

Non so e non ho conoscenze riguardo ai tempi della degenerazione del materiale genetico, ma qualche centinaio d’anni per la natura mi sembra un tempo infinitamente ridotto.

Dal mio punto di vista la ricerca da seme dovrebbe essere più che una ripartenza, una piccola integrazione per la salvaguardia della biodiversità con la possibilità di ottenere qualcosa di unico. Noi in Italia dovremmo prima creare dei vigneti per far sopravvivere le vecchie selezioni massali e le varietà rare, penso, se non ho frainteso alcuni amici, che questo sia già adottato in Borgogna. La sola ricerca da seme senza salvaguardia della storia non la trovo utile.

Chi ha la fortuna di avere vigneti da selezioni massali storiche comunque oggi non ha la stessa biodiversità di 50 100 o 150 anni fa perché alcune individui unici possono esser morti senza prima esser stati propagati riducendo anno dopo anno la diversità.

Ho avuto il piacere di conoscere nel 2007 Elisabetta Foradori, oggi una grande amica che sta portando avanti diverse ricerche. Abbiamo parlato per la prima volta di piante da seme nel 2010 e dopo ho deciso di provare una sperimentazione di autofecondazione sui diversi vigneti di Nebbiolo, piantando questo anno in campo un migliaio di viti da seme. Non so se considerarmi un sognatore, ma se ci saranno piante con caratteristiche buone e simili al genitore­ vorrei inserirle nei vigneti di origine per cercare di mantenere una popolazione il più eterogenea possibile.

Luca Roagna

 

 

Gianpaolo Paglia ( Poggioargentiera-produttore maremma toscana )

 

L’Italia e’ un paese strano, anche in questo. Vi sono molte, forse troppe e troppo sottocapitalizzate, facolta’ di agraria un po’ dappertutto, e a volte uno si domanda che cosa studino e che cosa facciano, perche’ quanto meno quello che fanno emerge al pubblico (professionale) come poco o nulla. Conosco personalmente brillanti ricercatori nel campo della genetica vegetale, che davvero sono al livello dei massimi centri di ricerca nel mondo, ma in qualche modo la selezione genetica nel campo della vite e’ stata quasi sempre un fatto semiprivato, tra produttori e vivaisti.

In Maremma, specie nelle zone interne intorno Pitigliano, vi erano decine di varieta’ di vite oggi scomparse, ne cito alcune che si trovano in una ricerca commissionata dal ministero dell’agricoltura del regno (sic) circa 1883: nocchianello, duropersico, verdello, procanico lento, francesino, ecc. E’ paradossale che 150 fa lo stato si prendesse cura di catalogarle, mentre oggi se uno le volesse reinserire, al posto dei cloni monstre di trebbiano anni ‘70, “migliorate” dalla generosa presenza di sauvignon e chardonnay che abitano i vigneti odierni, ci vorrebbero capitali e tempi lunghi, per l’iscrizione al catalogo delle varieta’. Insomma, sarebbero piante illegali.

Ho visto con i miei occhi un vigneto collezione, curato (si fa per dire) da una facolta’ di agraria, su un terreno privato, in stato di completo abbandono.

I convegni sul rilancio dell’agricoltura, sul km zero, sul terroir viticolo non mancano, mentre invece i quattro soldi necessari per uno studio e una catalogazione delle vecchie varieta’, forse meno costosi di uno dei buffet dei suddetti convegni, non ci sono. E neanche la volonta’.

Una delle aziende piu’ importanti d’Italia, investendo massivamente in impianti di vigneti nella zona, che secondo me ha un potenziale altissimo, ha pensato bene di piantare decine e decine di ettari di … malbec.

Ecco, sarebbe bello che qualche giornalista del vino ci raccontasse anche queste storie. Sarebbe interessante. “

 

( Fonte vino.blogautore.espresso.repubblica.it )