Home Arrabbiature «Non solo vino, cerchiamo di vendere il paesaggio»

«Non solo vino, cerchiamo di vendere il paesaggio»

Danilo Gasparini, docente di storia dell’agricoltura e della alimentazione «Ci siamo mangiati la campagna e adesso sfruttiamo le colline: fermiamoci»

 

VALDOBBIADENE. «É andata così. Mio padre e suo fratello Giovanni, nel dicembre 1948, nella fase di costruzione di un podere in proprietà, sognato da secoli, acquistano 92 are (un ettaro scarso) di seminativo arborato per 120 mila lire. Nel 1963 avviene la divisione: il pezzo di terra tocca in parte a mio padre. Poi è autobiografia pura: mio padre muore nel 1988, quel pezzo di terra va a mio fratello Francesco, che da contadino era diventato prima autista, poi operaio tessile, poi imprenditore edile, nella migliore tradizione del Nordest. Presto fatto: nel volgere di pochi anni vende prima il sottosuolo a dei cavatori di ghiaia, poi, esaurita la vena, bisogna pur riempire la grande voragine. È il momento di vendere il tutto ad una società che si occupa di smaltimento dei rifiuti, così la cava via via si riempie e “emerge” una collina, di rifiuti. L’orizzonte cambia, anzi lo skyline e anche il profumo: niente più gelsi, niente più viti, niente più frumento, puro San Pastore, niente polenta, niente erba medica, niente notti passate con mio padre ad irrigare i campi di mais ma un persistente effluvio di rifiuti, pre-raccolta differenziata».

Danilo Gasparini, 62 anni, docente di storia dell’agricoltura e dell’alimentazione all’università di Padova, è un trevigiano che vive nelle terre del prosecco. Storico dell’agricoltura e gastronomo, allievo di Marino Berengo, collabora stabilmente con Geo & Geo, la trasmissione televisiva di Sveva Sagramola. Non ama la retorica dell’agricoltura, assistita e un po’ truffaldina. Il suo racconto autobiografico di eredità è lo spaccato del nostro ultimo Novecento.

Quante volte, Gasparini?

«Possiamo moltiplicare il caso Gasparini e avremo la storia di come è andata a farsi fottere gran parte della campagna padana e veneta in particolare».

Cosa c’entra il prosecco con il disastro del Molinetto della Croda?

«Non so come sia davvero andata a Refrontolo, ma questa tragedia è l’occasione per farsi delle domande e pretendere delle risposte. Prima che sia troppo tardi».

I produttori di prosecco si sono sentiti accusati. É così?

«Non accuso nessuno, ma è sbagliato chiudere gli occhi.Poiché vivo questo territorio vedo molte manomissioni, molti movimenti terra, molta densità di impianti: non si tratta di dare colpe, ma questo territorio è intrinsecamente fragile, delicato, la collina va rispettata. Le radici di una vite non sono né profonde né resistenti: siamo tutti impegnati nel cercare di vendere questo territorio. Sappiate che dobbiamo vendere anche il nostro paesaggio e il paesaggio è fatto di molte cose, anche di un equilibrio che eviti la monocoltura e l’uso eccessivo del territorio».

Non ha paura di venire bollato come un inguaribile polemista?

«La storia è piena di profeti inascoltati. Provocatoriamente si potrebbe dire: basta prosecco. Io dico: basta a questo tipo di prosecco. Che senso ha una Doc che si estende su nove province, da Padova a Udine? Zaia ne è l’artefice e i prosecchisti certamente gli devono immediata riconoscenza, ma che senso ha inseguire l’obiettivo di 500 milioni di bottiglie? Perché gareggiare con lo champagne, che ha tutt’altra storia? Penso che stiamo facendo pagare al territorio un prezzo troppo alto»

Cosa pensa di Zaia?

«Lui è un figlio impuro dell’istituto Enologico di Conegliano, che pure ha diplomato protagonisti della modernizzazione del settore: da Carlo De Giacomi, titolare del grande enopolio di Chiavenna, a Pietro Cinzano che perfeziona lo stabilimento familiare; da Augusto da Rios grande commerciante di vino a Giovanni Bertani, titolare della nota azienda in Valpolicella; da Tancredi Biondi Santi, il padre del Brunello, a Leopoldo Suarez, che fu ministro dell’Agricoltura in Argentina».

Anche la Scuola di Conegliano deve cambiare?

«Qualche responsabilità ce l’ha anche la Scuola Enologica di Conegliano. Non è più tempo di preparare solo enologi, ma vignaioli capaci di capire e rispettare le vocazioni pedologiche, gli equilibri, capaci di trattare il suolo come un cosa viva e non come un substrato inerte e passivo».

Da dove cominciare?

«Partirei davvero con la valorizzazione degli altri vitigni: gli autocnoni, la perera, il verdiso, la bianchetta, che poi fanno parte della storia del prosecco. Smetterei di inseguire i primati economici e industriali».

 

 

( Fonte tribunatreviso.gelocal.it )

 

 

P.S. ) Riusciremo a fermarci in tempo utile ??