Al Sud solo la Sicilia produce con livelli uniformi ovunque. In Calabria e Puglia dipende dalla zona
Mettiamo fine all’autoconvinzione di essere “i migliori” e occupiamoci degli aspetti concreti. Quando, trent’anni fa, si rappresentava la mappa dell’olivicoltura nel mondo, c’era il Mediterraneo con al centro l’Italia, leader mondiale per quantità e qualità. Oggi bisognerebbe aggiungere Argentina, Cile, Australia e, fra poco, Cina.
Ma,anche rimanendo nel Mediterraneo, bisogna spostare il baricentro produttivo su altre regioni. La Spagna, dopo tre piani olivicoli nazionali e trent’anni di investimenti, ha una produzione reale stimabile in quattro cinque volte quella italiana; la Grecia è quasi pari a noi. Marocco, Tunisia, Siria e Turchia rappresentano la nuova frontiera della produzione olivicola mondiale, fatta di aziende con migliaia di ettari di nuovi impianti, costi di produzione bassi, meccanizzazione agricola spinta, nuove cultivar impiantate. Il tutto realizzato spesso con l’aiuto dei nostri agronomi e delle nostre strutture di ricerca. L’Italia non ha risposto, chiudendosi a riccio su una presunta eccellenza e qualità.
Ma analizziamola questa eccellenza. La Puglia (col 3540% del totale nazionale) ha una situazione molto variegata: il Brindisino Leccese e il Sud barese hanno perlopiù qualità mediobassa, Nord barese e Foggiano alta, ma spesso con difficoltà di collocazione diretta sui mercati nazionali e internazionali. La Calabria (3035 % del totale nazionale) ha aree eccellenti, ma anche grandi quantitativi di qualità medio bassa. La Sicilia (1015%) ha pochi problemi di collocazione. Le altre regioni (Toscana, Umbria, Liguria, Lazio, Abruzzo eccetera) producono quantità non elevate e commercializzano a prezzi più alti di quelli medi del mercato “globale” in contesti per nicchie di consumatori.
Poi c’è grande frammentazione delle maglie poderali, un numero enorme di aziende olivicole, impianti vecchi mai rinnovati, scarsa meccanizzazione (con alti costi produttivi).
L’Italia ha un primato:costruisce la quasi totalità degli impianti di estrazione, ma li vende per il 7080%all’estero. Quindi la produzione ormai è altrove. Inoltre, i nostri impianti di trasformazione sono generalmente piccoli e obsoleti.C’è una resistenza diffusa ad adeguarsi a nuovi metodi produttivi. Risultato: le aziende di trasformazione con difficoltà riescono a essere validi interlocutori di produttori, confezionatori e commercianti che puntano sulla qualità.
Quindi occorre darsi strategie nuove. La battaglia quantitativa nel mercato globale è persa, bisogna produrre in qualità,tracciare tutte le produzioni, dare valore aggiunto ai nostri olii di qualità, segmentando la produzioni e legando gli olii al territorio e a concetti di salubrità, biologicità, di sicurezza alimentare. È necessaria una rivoluzione culturale: il frantoio è un’azienda alimentare con elevati standard di sicurezza, non un posto caratteristico dove tutti entrano a vedere l’olio nuovo. Sono necessari investimenti per migliorare le strutture, eliminare la frammentazione nella trasformazione. È sbagliato ipotizzare investimenti in certificazioni di sistema e ambientali in strutture che trasformano poche migliaia di quintali di olive.
Ma il problema più grave è commerciale.Il mercato che conoscevano era fatto di tre quattro aziende marchi nazionali, che detenevano il 60% del mercato italiano e rappresentavano l’olio italiano nel mondo. In pochi anni i nostri competitor, Spagna in testa, hanno provato prima a sfondare sul mercato internazionale con propri marchi; poi, visti gli scarsi risultati e i grandi investimenti necessari, hanno cambiato strategia.
Stanno comprando tutti i marchi storici italiani e con essi le quote importanti di mercato internazionale e italiano. Sono passati di mano in pochi anni Dante, Bertolli, San Giorgio, Sasso, Carapelli e sono insistenti voci di cessione della Monini.Così ci restano solo piccolemedie aziende, senza strutture commerciali e massa critica sufficienti per i mercati internazionali. Che fare? La nostra forza è nellaqualità distintiva. Nel mondo si consuma italiano non solo per la qualità intrinseca, ma anche per il patrimonio storico culturaletradizionale che il prodotto porta con sé.
L’olio da solo, con le sue basse marginalità non può affrontare il mercato globale, fatto di strutture commerciali organizzate e capillari e costi distributivi molto alti. È necessario strutturare panieri di prodotti di alta qualità, legati al territorio in tutte le sue diversità, certificare le produzioni e ricertificare il sistema produttivo. Al legislatore il compito di stimolare la creazione di panieri, formare i nuovi tecnici di produzione e commercializzazione internazionale e proteggere la nostra qualità distintiva.
( Fonte Il Sole 24 Ore )
gennaio 2007