Bando agli indugi: io sto col tappo a vite di Angelo Peretti
Lo dichiaro pubblicamente: io sto col tappo a vite. A costo di beccarmi improperi di tutti i tipi. Vigneron, usatele ste nuove tappature. Bevitori, compratele ste bottiglie di nuova concezione. Ci salveranno. E cerco di spiegare perché la penso così. Partendo da Merano.
Ma dico io: uno paga settanta, diconsi settanta, euro per andare ad assaggiare dei vini, e poi non saccorge neanche di quel nauseabondo odore di tappo? Eppoi, uno? Macché: decine.
Con ordine. Luogo: Merano, dicevo. Occasione: Wine Festival. Mavvicino alla postazione dun produttore di Gattinara. Mi versa lultimo goccio, ma proprio lultimo, duna sua bottiglia. Puzza di tappo da far paura. Guardo allibito il vigneron, e chiedo: «Ma fino ad adesso non glielha detto nessuno che sa di tappo?» E lui, allibito: «No, nessuno». Lhanno bevuta tutta, la bottiglia: considerando che, vista la quantità versata, una boccia dà almeno una ventina di porzioni, vuol dire che a non essersi accorto di niente sono stati in tanti. Roba da matti.
Ora, mi domando quale sia la motivazione per me un mistero che spinga la gente a sborsare tutti quei soldi per andare a una fiera a trangugiar liquidi alcolici senzaccorgersi se quel che mettono in bocca è accettabile, se insomma quanto meno non genera un tanfo insopportabile. Epperò non è di questo che voglio scrivere stavolta, bensì proprio del problema dei tappi. Che è grosso assai. E a Merano ne ho avuta conferma su conferma: dei primi venti vini provati, un terzo abbondante aveva, più o meno accentuato, linconfondibile difetto. Una percentuale drammatica. A un produttore di Riesling alsaziano chesponeva nella vicina Naturno è andata anche peggio: dodici bottiglie «tappate» su dodici. Da spararsi: partire dalla Francia per esporre in Südtirol e non aver neppure una boccia presentabile.
Già: un problema sti tappi. E mica solo per la faccenda del tricloroanisolo (in sigla tca), lagente chimico, presente a volte (e ormai le volte son tante) chissà come e perché nel sughero e che è il vero responsabile del cattivo odore assunto dal vino. Macché. A qualche produttore negli ultimi anni è capitato di dover ritirare dal mercato qualche migliaio di bottiglie perché contaminate dalle colle, dai solventi, dai lavaggi, dai perossidi, da quantaltre diavolerie ci sinventa nella lavorazione dei tappi. E i danni sono grandi, anche in termini di reputazione, di perdita di clientela. Insomma: brutta rogna.
Ci hanno provato, si sa, a farli sintetici, i tappi. Di materiale plastico (di silicone, susa dire, anche se poi silicone non è). Ma, oggettivamente son bruttini. E poi non mi pare abbiano dato gran risultato in termini di tenuta.
E allora? Allora il futuro, per me, è nel tappo a vite. Quello di nuova generazione. Quei tappi che chiamano screwcaps, e se non guardi bene la bottiglia neanche te ne accorgi che non è chiuso al solito modo tradizionale. Quei tappi insomma che non sono neppure male in fatto deleganza. Certo, mancherà un po la poesia della levatura del turacciolo. Ma che poesia cè a buttar nel lavandino il vino perché sa di tappo?
Si parla magari di vini da bere giovani, nei due-cinque anni. Mica di più. Lasciando il (poco) sughero sano esistente alle bottiglie da far invecchiare a lungo. E qui il sughero credo sia ancora insostituibile.
Allestero si sono già svegliati da tempo, sulla questione del tappo a vite. Questanno è intorno al novanta per cento (novanta!) la quota di chiusure a vite utilizzate dai vignaioli della Nuova Zelanda (eh, sì, fanno il vino anche là, ed alcuni – i Sauvignon della Baia di Marlborough, per esempio sono dei fuoriclasse). Lo diceva in giugno a MiWine, la fiera milanese, David Skalli di Wine Evolution Network. La progressione del tappo a vite in terra neozelandese è stata impressionante: nel 2000, era usata sul 2% appena delle bottiglie, nel 2005 la quota era già del 72%.
Nei giorni di MiWine, Skalli venne intervistato dal magazine on line WineNews. Diceva che allestero, e in particolare laddove non cè una cultura radicata in materia di vino, «il tappo a vite non è visto di cattivo occhio e in futuro potrebbe sigillare buon parte dei vini compresi nella fascia di prezzo sotto gli 8 dollari. A facilitare la diffusione della vite ci sta pensando poi lo stesso mercato. I consumatori stanno iniziando ad apprezzare la possibilità di aprire facilmente una bottiglia e altrettanto facilmente richiuderla se non completamente terminata».
Si potrebbe obiettare: ma sì, è roba da gente che di vino non sa niente: Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica. Invece no. Invece è ora di svegliarsi. Ché le cose stanno cambiando. In fretta. E se ne stanno accorgendo anche personaggi insospettabili. Uno su tutti: Quinto Chionetti.
Chi sia Chionetti forse non tutti lo sanno, perché non dovunque è in uso tracannare bottiglie di Dolcetto di Dogliani. Ecco, Chionetti è la tradizione del Dolcetto. Classe 1925. Ottantanni e passa. Autore – da sempre – di bottiglie daltissimo livello. Un mito. Se fossimo in Valpolicella, sarebbe il Quintarelli della situazione, giusto per fare un paragone. Ebbene: Chionetti passa al tappo a vite. A darne lannuncio è mica un comunicatore qualunque, però. No: ne ha parlato, sulla Stampa, in settembre, nientemeno che Carlin Petrini, lui, il fondatore di Slow Food, altro baluardo della piemontesità. «Tra i tantissimi argomenti di cui abbiamo parlato racconta Petrini a proposito dun incontro col decano Chionetti -, è presto saltata fuori la novità dei tappi che lui ha iniziato a impiegare per sigillare le sue preziose bottiglie. Me lha anche mostrate, queste bottiglie: hanno una particolare chiusura a vite che da un parte scongiura il temuto, ormai frequentissimo sentore di tappo, dallaltro dovrebbe garantire la tenuta perfetta del vino nel tempo. Se vogliamo, la novità – che poi è tale fino a un certo punto – ha il sapore di una provocazione. Ma una provocazione bene ragionata».
Ora, se uno come Chionetti se la sente di fare il salto, e se uno come Petrini non lo disapprova manco per niente, non è che agli altri piccoli produttori nostrani possa venire in mente che questè la strada giusta? Invero, qualche segnale lavverto. Un noto consulente veronese mha confidato proprio a Merano che sta pensando a un bianco, importante, da imbottigliare col tappo a vite. Da unaziendina tra le migliori che ci siano in area gardesana mi viene la notizia del (probabile) passaggio alla vite per la nuova annata del rosè. Bene, benissimo. Se non ci pensano le realtà maggiori dimensionalmente (ché quelle tappano già a vite, ma solo per il mercato estero), la rivoluzione la facciano i piccoli. A vantaggio dei consumatori, che spenderanno i loro quattrini senza il rischio di dover buttare via la bottiglia perché puzza di tappo. A vantaggio anche dei sughereti, che, sfruttati alleccesso come sono oggi, rischiano la scomparsa.
Qui da noi, in Italia, cè un duplice blocco. Il primo è culturale: facciamo fatica a rinunciare alla tradizionale chiusura col sughero. Il seconso è la legge: il disciplinare di molte doc italiche non prevede il tappo a vite, e per di più la normativa sui vini docg li esclude proprio. Ma fuori dai patrii confini scalpitano. Al punto che uno che conta parecchio – sul mercato britannico del vino, David Gleave, leader di Liberty Wines (badate: lazienda commercializza marchi italiani come Allegrini, Pieropan, Isole Olena, mica roba da poco), ha preso carta e pennaCORSI