Home News Valpolicella, la cavalcata dei giovani produttori e la guerra dell’Amarone

Valpolicella, la cavalcata dei giovani produttori e la guerra dell’Amarone

La spinta eccessiva del vino di punta ha dimezzato le altre etichette. L’alleanza delle antiche famiglie: «C’è chi svende»

 

VERONA - Prima il corposo Recioto e poi l’imperiale Amarone hanno reso famosa la Valpolicella, ma non vanno dimenticati né l’agile Valpolicella, né il più importante Valpolicella Classico Superiore, né soprattutto il recente sontuoso Ripasso, che tante soddisfazioni sta dando ai produttori. Con l’Amarone e il Ripasso il Veneto dunque ha fatto il suo ingresso nell’Olimpo dei migliori vini al mondo stilato dalla rivista Wine Spectator: la Bibbia dell’enologia mondiale. La storia della Valpolicella affonda le sue radici nel VI secolo perché è al passito di questo territorio, che fa chiaro riferimento Cassiodoro, nell’epistola al Canonicarius delle Venezie, quando gli fa pregustare: «Un vino schietto, di colore regale e sapore particolare, tanto che potresti credere che la porpora sia tinta alle sue sorgenti o, al contrario, che la sua parte liquida sia spremuta dalla porpora. In esso la dolcezza si percepisce con una soavità inesprimibile. La consistenza è rafforzata da non so quale robustezza ». A questi lontani elogi, diversi secoli dopo, nel 1950 si aggiungevano quelli di Ernest Hemingway, che scopre non solo l’Amarone ma anche il Valpolicella, definendolo un vino «leggero, secco, rosso e cordiale come la casa di un amico ». Ma qual è la terra natia dell’Amarone? Sui Colli Lessini occidentali, tra le vallate di Fumane, Marano e Negrar, si stende la Valpolicella: a sud Pescantina, a nord i monti Pastello e Pastelletto fino alla confluenza del Vajo della Marciosa con quello dei Falconi in prossimità del naturale ponte di Veja. Qui più di seimila famiglie traggono reddito da vite e vino. Se i vini di queste terre sono da Olimpo, al tempo stesso possiamo dire che qui i paesaggi sono talmente leggiadri da poter accogliere gli dei.

Ne era consapevole Andrea Mantegna, che prendendo spunto da una passeggiata in Valpolicella, nel 1497 dipinge Parnaso, il celebre quadro conservato al Louvre, dove appaiono Marte e Venere sopra un roccioso arco (chiaro riferimento al ponte di Veja) e nel paesaggio sottostante (la Valpolicella) graziose muse, unite in girotondo di contentezza piena, intente a danzare nel segno dell’armonia. Nei terreni rossi e bruni su detriti o su marne, ma anche su quelli compatti rossi su calcari o su basalti i vignaioli valpolicellesi, forti di una tradizione millenaria, coltivano vitigni autoctoni: Corvina veronese, Rondinella e Corvinone. I terrazzamenti che sostengono i vigneti sono segnati da artistici muretti a secco, anche a spina di pesce, chiamati marogne. Qui la forma di allevamento tradizionale del vigneto è la pergola nelle sue forme veronese, trentina semplice o doppia. In questo modo i vignaioli traggono il migliore umore della terra, che nel vino sanno farlo diventare buon umore, per infondere ai fruitori uno stato d’animo euforico, che di solito tende a comunicarsi agli altri, per la gioia di tutti. Negli ultimi anni il paesaggio agricolo in Valpolicella ha subito evidenti cambiamenti: al recupero di molti vigneti abbandonati si sono sommati degli sbancamenti anche in alta collina, facendo posto alla vite dove prima c’era il bosco: alle volte rispettando l’ambiente, altre volte sfigurandolo. Nei nuovi vigneti si sta diffondendo l’allevamento a parete, tipo Guyot, che facilita la meccanizzazione.

Ma i vecchi viticoltori prediligono la pergola

che offre i grappoli in posizione da favorire la cernita: operazione importantissima nella produzione di vini passiti, tanto che nel descrivere i pregi della pergola i viticoltori mimano, con la rotazione della mano, il tipico gesto di selezione del grappolo. Ciò esemplifica a quale livello di perfezione sia giunto il sapere e il saper fare dei produttori di vino della Valpolicella. E’ per questo che rattrista vedere un bene come l’Amarone esposto al rischio di svilimento, dopo che negli ultimi anni l’area di coltivazione è stata allargata, sia a ovest, ma soprattutto a est di Verona, debordando anche in pianura, quando è noto che questo vino ottenuto da uve di collina presenta una complessità di profumi floreali, sconosciuta a quello delle zone piane.

Recentemente, per sfuggire a una facile omologazione di prodotto, le cantine sociali di Negrar e Valpantena hanno assegnato al Centro di ricerca per la viticoltura di Conegliano il compito di studiare la relazione vite/ ambiente per valorizzare la produzione di Amarone. Scelta anticipata da un gruppo di produttori di Amarone che, con uno scatto d’orgoglio, hanno deciso di fare squadra, dando vita all’associazione Le Famiglie dell’Amarone d’Arte: una «santa alleanza» tra le 12 famiglie più rappresentative dell’intero sistemaValpolicella: Allegrini, Begali, Brigaldara, Masi, Musella, Nicolis, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant’Antonio, Tommasi, Venturini, Zenato.

«Noi abbiamo accudito questo figlio maltrattato, l’Amarone, anche quando non andava di moda, anche quando non era redditizio come adesso», commenta il presidente delle Famiglie dell’Amarone d’Arte, Sandro Boscaini, titolare della cantina Masi.

«In questi anni l’Amarone ha fatto una cavalcata straordinaria se si pensa che vent’anni fa era un vino sconosciuto e adesso è il traino di tutto il sistema della Valpolicella – continua Boscaini che inisieme alle altre undici famiglie tradizionali produce due milioni di bottiglie sui dodici in commercio -ma purtroppo adesso c’è qualcuno che cerca ricavi immediati svendendo l’Amarone a meno di venti euro a bottiglia». Una politica economica che ha già pesantemente inciso sul Valpolicella che è passato da 50 milioni di bottiglie dieci anni fa alle 25 milioni di oggi e che sta andando a scapito degli altri vini del veronese. La fortuna dell’Amarone infatti è racchiusa nella sua forte identità, forgiata da un territorio esclusivo. L’aveva intuito anche Plinio che, riferendosi alla vite di questi suoli, scriveva: «Aveva un tale amore per la propria terra che lasciava, nel trapianto in altri paesi, tutte le sue glorie perdendo le sue qualità».

( Fonte Corriere del Veneto )