L’oncologo: l’uso in agricoltura previene le malattie e in futuro permetterà di sfamare un mondo in cui saremo sempre più numerosi
“Veronesi assassino”, così dicevano i cartelli con cui mi accolse un drappello di manifestanti, uno dei primi giorni in cui, come Ministro della Sanità, arrivavo in Piazzale dell’Industria a Roma. Di fronte al mio stupore, i miei collaboratori mi spiegarono che l’accusa era dovuta alle posizioni che avevo preso il giorno prima a favore dell’impiego della genetica in agricoltura.
Ho riflettuto molto su quel cartello e mi sono reso conto che il problema non poteva essere che culturale. Era il 2000 e la grande rivoluzione della genetica della metà del secolo scorso ancora non era stata compresa, accettata e fatta propria dalla gente. E ancora non lo è, come dimostra il dibattito a cui sono intervenuti Elena Cattaneo e Carlo Petrini, a seguito dell’intervista di Vandana Shiva. In effetti la decodifica del Dna ha messo in discussione la nostra concezione dell’uomo e del pianeta, attraverso tre grandi sorprese.
L’INTERVISTA A REPUBBLICA DI VANDANA SHIVA / ENGLISH VERSION
LA REPLICA DI ELENA CATTANEO / L’INTERVENTO DI CARLO PETRINI
La prima è che la struttura della vita è estremamente semplice: ci sono quattro basi azotate – Adenina, citosina, guanina e timina – che si uniscono in gruppi di tre, per comporre le 64 triplette che, legandosi fra loro, formano quei circa 20 aminoacidi alla base della struttura di ogni organismo vivente. È come se esistesse un alfabeto di sole 4 lettere che, combinate prima in parole e poi in frasi, scrivono l’intero libro della vita.
La seconda sorpresa è che questa semplice struttura è comune a ogni forma vivente, dal filo d’erba all’elefante: tutto è composto dalle stesse 4 basi azotate e la differenza fra un uomo e un insetto o un virus è di pochi geni. La terza sorpresa è più che altro una conseguenza delle prime due. Se tutti i Dna sono sostanzialmente uguali, è facile trasferire un gene da uno all’altro.
Così nacque negli anni ’80 l’idea di effettuare un trasferimento genico per far fronte al bisogno di aumentare la disponibilità di insulina per la cura del diabete, una malattia in aumento nel mondo occidentale. Così è stato isolato il gene che produce insulina nell’uomo ed è stato trasferito in un batterio, l’Escherichia Coli, un organismo che si moltiplica molto velocemente, producendo a bassissimi costi e in grandi quantità l’insulina transgenica che ha risolto il problema di migliaia di malati.
Dopo questa esperienza, è stato spontaneo per la scienza pensare di applicare il principio del trasferimento genico al miglioramento delle piante per aumentare la qualità dell’alimentazione umana. Un’esperienza molto significativa in questo senso è quella realizzata da Ingo Potrikus, ricercatore dell’università svizzera e inventore del Golden Rice. Potrikus ha studiato il fenomeno della cecità molto diffusa nei bambini orientali, ed ha capito che era dovuta ad una carenza di vitamina A. Ha quindi inserito il gene che produce questa vitamina nel Dna del riso, ottenendo un prodotto transgenico, il Golden Rice, che ha risolto quasi integralmente il gravissimo problema della cecità infantile in quei Paesi.
In seguito la ricerca su come utilizzare la genetica per nutrire la popolazione mondiale è diventata via via sempre più urgente. Basta pensare che gli esseri umani da sfamare sulla Terra sono già 7 miliardi e saranno 9 miliardi fra poche decine di anni, a cui vanno aggiunti 4 miliardi di animali da allevamento. Il mondo vegetale non si può moltiplicare agli stessi ritmi, e dunque dobbiamo trovare come assicurare la sopravvivenza della vita sul pianeta. La scienza si sta impegnando con tutte le sue forze. Anche in Italia. Per esempio Chiara Tonelli, genetista dell’università di Milano ha messo a punto, tramite trasferimento genico, una pianta che può crescere anche in climi desertici, sfidando la siccità.
Nella mia attività di oncologo ho toccato con mano il potere buono della genetica applicata all’agricoltura. Ho studiato a lungo l’azione cancerogena dell’aspergillus flavus, un fungo che si sviluppa nei climi caldi (in Africa si trova nelle arachidi) e che produce le aflatossine, potenti agenti all’origine di molti tumori, in particolare quello del fegato. Quando in Italia, intorno al 2003, furono ritirate diverse derrate di latte perché contenevano tracce di aflatossine ho ripreso questa linea di studio e ho scoperto la causa di questa tossicità. Il nostro mais, quando cresce in un clima molto caldo, viene attaccato dalla piralide, un parassita che scava caverne all’interno del fusto in cui si insedia facilmente l’aspergillus, producendo le temibili tossine. Il mais diventa o cibo per l’uomo (la polenta per esempio) oppure mangime per le mucche che, infettate, producono latte contaminato.
Negli Stati Uniti hanno trovato il modo di inserire un gene nel mais che lo rende resistente alla piralide, senza dover utilizzare gran quantità di pesticidi, che possono essere comunque tossici per l’uomo. Un intervento ottimo per l’economia e la salute, che però nel nostro Paese non ha potuto essere realizzato. Perché? È una questione di cultura, appunto, che deve sempre accompagnare il progresso della scienza perché i suoi risultati non appaiano lontani dal fine ultimo della ricerca scientifica, che è il miglioramento della qualità di vita dell’uomo. Se questo fine è ben chiaro, appare assurdo opporsi per principio all’applicazione della genetica in agricoltura e sembra invece ragionevole studiare, per ogni prodotto cosiddetto Ogm, il rapporto rischio-beneficio. Spero che il dibattito aperto su queste pagine dia un contributo significativo in questa direzione.
( Fonte Repubblica.it )