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Vino al ristorante solo se racconta una storia

Se c’è qualcuno che favoleggia della luce in fondo al tunnel o spera che, prima o poi, tutto tornerà come prima, meglio che si rassegni e si metta, di corsa, ad adeguarsi ai cambiamenti.

Nel rapporto tra il vino e la ristorazione è cambiato tutto e nessuno pensa che si tornerà mai più indietro. Proposte enoiche da ripensare, gestione degli stock più delicata e complessa, investimenti sulla formazione da mettere in campo (in Italia si investe in formazione un vergognoso 1,2% dei ricavi), carte dei vini da riscrivere….E il bello è che gli esperti si aspettano tra pochi anni una nuova rivoluzione: in meno di un decennio i “paninari” di oggi irromperanno sul mercato e si dovrà essere pronti ad adeguare di bel nuovo l’offerta.

Intanto ce la si deve vedere con la crisi che ha cambiato radicalmente il modo di bere. Gli esperti se ne sono accorti in modo tangibile dopo il 2011, ma probabilmente la novità strisciava, non vista, già da prima. In gioco ci sono i conti economici della ristorazione perché il beverage (acqua e bibite compresi) è il settore che assicura maggiori margini (circa l’80% sul fatturato del comparto) rispetto al food. Perdere su questa voce può essere l’anticamera della serranda abbassata.

Nei giorni scorsi a Cast Alimenti si è tenuto un vertice di soci della Associazione internazionale consulenti della ristorazione che, tradotto in inglese, ha una sigla che suona Fcsi. Il tema era la proposta enologica nella gestione dei servizi ristorativi.

Ha aperto le riflessioni il consulente Costantino Gabardi, molto attivo nel Bresciano (Provenza, Lo Sparviere) cercando di chiarire cosa fa vendere il vino e cosa lo lascia in cantina. Il calo della domanda è strutturale (siamo orami sotto i 40 litri pro capite) e da lì non si scappa. La novità è che il cliente è più esigente in termini di qualità e molto attento al prezzo.

Il primo cambio epocale si è avuto attorno al 1995, dieci anni dopo lo scandalo del metanolo, con l’arrivo sul mercato di generazioni alfabetizzate sul vino. Tra l’86 (scandalo del metanolo) e l ’95 si bevevano soprattutto le etichette, poi sono comparsi nelle carte dei vini anche vini sconosciuti, ma di qualità eccelsa. E la gente ha cominciato a guardare anche il prezzo.

Ma l’idea della qualità è evoluta a sua volta. Oggi un vino di qualità si fa largo in base al posizionamento sul mercato, la certificazione della provenienza, la garanzia sulla corretta conservazione e, fondamentale, la storicità (meglio se garantita da un organismo terzo). Che il vino sia buono lo si da ormai per scontato. Il vino diventa insomma un tutt’uno con il suo territorio e la sua storia, anche quella del produttore. Così Gabardi ammonisce: «Se vuoi vendere ci devi mettere il muso».

Ma qui cominciano i problemi e li segnala Giuseppe Cannito dell’Hotel Cipriani di Venezia che spiega: «Chi entra al ristorante e ordina un vino cerca un’emozione. Il ristoratore deve essere divulgatore di cultura». Bene, ma se al tavolo si presenta del personale che, interrogato, sa raccontare solo le scarne informazioni della controetichetta? Cannito segnala che spesso i clienti sono più preparati del personale e così la proposta della cantina rimane… in cantina.

Anche le carte dei vini sono cambiate, quelle che raccolgono i vini per regione sono da buttare. Oggi si propongono i vini per tipologia in vista dell’abbinamento. Cosa va proposto? Sempre, avverte Cannito, il prodotto del territorio. Se manca qualche grande annata di qualche grande vino, poco importa. E poi in carta ci devono essere vini che si sposano bene con i piatti proposti. Anche se sono sconosciuti, certo, purchè si abbia la capacità di raccontarli.

Dove comprare il vino? L’acquisto dal produttore offre molte garanzie, ma obbliga ad elevati immobilizzi in cantina. L’agente va bene, ma deve essere un consulente, sennò fa solo perdere tempo. L’enoteca è un modo per evitare gli stock invenduti, ma si spende qualcosa di più. E l’acquisto in Internet? Non è da escludere se si cerca un prodotto molto particolare.

A consulenti Fcsi, tutti esperti del ramo, Cannito raccomanda uno stretto controllo dei flussi in uscita con strumenti informatici. Fare gli ordini «a naso» è l’anticamera delle perdite.

Quanto sia profondo il cambiamento lo ha detto chiaro e duro lo chef Michele Cocchi, bolognese, attivo nel catering. Il vino, ha detto, è la prima voce che si è disposti a sacrificare. La qualità conta sempre meno del prezzo. Così alle feste vince a mani basse il Prosecco su tutti gli spumanti. Poi c’è chi si procura il vino da solo dall’amico agricoltore, che rinuncia al servizio del sommelier per risparmiare (con gigantesco spreco di bottiglie stappate e lasciate a metà). Impossibile poi prevedere quanto e cosa si berrà. Oggi i pranzi di nozze sono spesso un prolungato happy hour con stuzzichini di pesce, carne e verdure serviti in contemporanea. Da un paio d’anni non si concorda più il prezzo del vino in base al consumo e quindi il catering deve offrire un prezzo finito vini compresi. Quanti? Cannito suggerisce di ricorrere alla statistica annotando quanto vino si è consumato in occasioni precedenti e chi ha partecipato (contando separatamente uomini e donne). Poi aggiunge che il personale deve essere molto preparato. Già, dicono gli addetti ai lavori, ma i catering si fanno con personale avventizio per niente professionale.

Ecco quindi in sintesi i consigli degli esperti per uscire dalla scomoda e irreversibile crisi: vini con una storia, forti investimenti sulla formazione del personale, e informatica in quantità per ottimizzare i costi e salvare, almeno in parte, i margini.

 

( Fonte Giornaledibrescia )