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Vino polesano: il sapore di campagna in tavola tutto da (ri)scoprire

ll sommelier Fabrizio Borin ha incontrato i produttori Cumini e Romani nella campagna tra Baruchella e Trecenta

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GIACCIANO CON BARUCHELLA E TRECENTA – C’era una volta e ci sarà ancora il vino in Polesine; a passi lenti riscoprire le uve locali. Vini così così dal sapore di campagna, sulla tavola il “bottiglion”, bianchi e neri come 100 anni fa.

 

Da vecchie uve scontrose su sabbia dell’Adige e argilla, qualche vite ancora a piede franco, dove la distanza tra Adige e Po è la più breve, il piacere di bere e del buon vivere lentamente: Vittorio Cumini e Gianni Romani uomini forti fanno i vini del ricordo, il Turchetta, il Benedina e il Mattarella, le uve invece si declinano al femminile, la Turchetta, la Benedina e la Mattarela, “vini veci” del contadino, ogni corte un filare, da bere in casa per stare insieme e fare festa fino agli anni ’60, ritrovati.

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Misture di orizzonti senza luogo, tempo non tempo, le atmosfere sospese della campagna polesana tra Trecenta e Giacciano con Baruchella, battuta dal sole, il benessere passa per una originale Mattarella frizzante oro chiaro di frutti e fiori, fresco e sapido o per un Turchetta rosso rubino di frutti acerbi e fiori apppassiti, aspro, estivo e beverino.

 

E poi il “Benedin” del Malanco, terra da buon vino sull’argine sinistro dell’emissario da Pissatola verso Baruchella, il più singolare, fine e profumato dei tre, ben colorato di rosso, era “vin dei sposi” o delle feste patronali che quasi sempre coincidevano con la trebbiatura, ne sono rimasti solo 30 ceppi per fare appena 200 bottiglie.

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In abbinamento con il salame da taglio e risi con i fagioli dei “Santi” o delle “undici e mezza” perché di rapida cottura, piantati poco profondi – dovevano “sentire le campane” che battevano le ore undici – piccoli color caffellatte con nuance di rosa e con buccia finissima si seminavano in aprile e si raccoglievano a luglio, poi si mettevano sull’aia ad essiccare e si battevano col tipico attrezzo, il “zerciaro”.

 

E poi con l’uva di San Martino, l’uva di seconda fioritura, si fanno i “sigoli”, non con mosto che serviva per fare il vino, ma con succo d’uva sbollentato e schiacciato con le mani, farina, zucchero e cotto per una buona merenda.

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( Fonte Rovigo In Diretta )