Alla tenuta Monteverro di Capalbio, tra i vigneti che degradano in direzione del mare, la blending room è un luogo a metà strada tra un laboratorio alchemico e una bottega d’artista. L’enologo che segue tutto l’anno i processi dell’azienda vinicola di proprietà di Julia e Georg Weber, il francese Matthieu Taunay, si confronta con i consulenti Jean Hoeflinger e Michel Rolland per portare a compimento il processo di scelta del miglior blend e dunque per ‘costruire’ i migliori vini.
Nulla di artificiale, solo un artificio di selezione che ha permesso all’azienda maremmana di raggiungere in pochi anni risultati significativi. Certo – come direbbe Rolland – a Monteverro il lavoro sulla qualità inizia dalla vigna e poi dalla refrigerazione delle uve appena vendemmiate e dalla selezione manuale degli acini, ma è proprio in quella blending room che il processo di produzione di buoni vini si spinge alla ricerca di grandi vini. È questo il ‘mestiere’ che Michel Rolland -classe 1947 – ha costruito come identità fin dal 1972.
Cresciuto nella tenuta di famiglia Château Le Bon-Pasteur a Pomerol, nella regione di Bordeaux, dopo il diploma all’Istituto di Enologia ha creato con la moglie Dany un laboratorio specializzato nell’analisi del vino e una società di consulenza che attualmente affianca 240 aziende in 14 Paesi, accompagnandole verso un miglioramento della qualità e del posizionamento dei loro vini.
Rolland, globetrotter attualmente impegnato in 105 aziende su 5 continenti, è oggi probabilmente il più conosciuto wine consultant al mondo e le sue competenze nel blending sono state definite “fenomenali” da Wine Spectator.Incontrandolo in Maremma, ospiti di Monteverro, abbiamo cercato di capire la valenza del suo intervento da direttore d’orchestra nella costruzione di un grande vino.
Monsieur Rolland, serve un blend per fare un grande vino? Significa che un vino non ha pienezza in sé?
È un discorso complesso, come il processo di cui parliamo. Cinquant’anni fa nessuno faceva selezione, non avevamo nemmeno le condizioni per farla. Tutta l’uva veniva vinificata allo stesso modo, solo distinguendo per tipi di vino. E alla fine erano tutti blend.
Si parla probabilmente di blend ingenui…
Quando ho iniziato il mio percorso professionale, i blend si facevano con 15 bottiglie sul tavolo: si scartava la peggiore, si faceva il blending di tutte le altre, si assaggiava e talvolta si recuperava pure metà del vino scartato. Più che fare blending, si mescolavano tutti i vini.
La storia è cambiata radicalmente, per quale ragione?
In cinquant’anni abbiamo lavorato duro nei vigneti, sulla selezione dei vitigni e sulle colture. E abbiamo studiato il diverso comportamento dello stesso vitigno in condizioni differenti, abbiamo iniziato a separare i vini in contenitori grandi e piccoli. Oggi i vini si producono separando vino e vino in funzione della specificità della particella di vigneto, dei grappoli che raccogliamo. Anzi, guidiamo il vino dell’annata in funzione della qualità di uva che il vigneto ha dato nell’annata. Ecco che avendo a disposizione una così ampia complessità non si mescolano tutti assieme, ma piuttosto noi scegliamo alcuni specifici componenti per creare un blend. È come comporre un brano musicale o come dipingere. E in ogni caso cerchiamo di ottenere il meglio con la materia prima che abbiamo in mano.
Lei si considera più un artigiano o un artista?
Un artigiano senza dubbio. Un artista non saprei, anche se certo dobbiamo avere un approccio artistico: nel vino cerchiamo l’equilibrio, cerchiamo un bilanciamento armonioso. E in ogni caso il vino perfetto è il prossimo su cui andremo a lavorare. Ecco siamo un po’ artisti perché siamo dei sognatori.
Come si compie la scelta giusta?
A un certo punto accade. Non è in realtà una decisione scientifica, semplicemente scatta qualcosa e ci si muove in una certa direzione. Io mi pongo la stessa domanda quando vedo giocare a tennis Roger Federer: perché sceglie quella giocata in quel momento? In fin dei conti è umano e commette errori, ma è il numero uno perché ne commette meno degli altri. Mentre lavoriamo sul blending accade qualcosa di simile: ad un certo momento percepiamo che quella è la strada migliore e continuiamo a provare in quella direzione, aggiungiamo una delle selezioni e ne riduciamo un’altra. Non è un processo razionale. Certo l’esperienza è importante… e questo è l’unico vantaggio che mi dà l’età.
Sembra qualcosa di simile ad un processo alchemico…
In realtà è importante un approccio realistico. Credo di poter dire di aver sempre provato ad ottenere il meglio in funzione di dove mi trovo. Se lavoro in Argentina non sono in Toscana né in Napa Valley o nel Bordeaux. E allora quello che provo a fare è comprendere lo stile del luogo. Quando ho iniziato a frequentare la California non ero famoso e la mia reputazione veniva dal mio lavoro a Pomerol. A quel tempo era esplosa degli Usa la Merlot-mania e fui contattato per accompagnare il vino verso una maggiore dolcezza. Mi son trovato al tavolo con persone che mi pagavano per esser lì a spiegare che non ci trovavamo in Francia, ma in California e dunque il nostro vino sarebbe stato realisticamente il migliore per quel luogo.
Lei considera come suo riferimento il cliente finale o il produttore o il vino stesso?
Francamente tutti e tre. Prima di tutto viene sempre il cliente, perché paga. Anche se non si tratta necessariamente di raggiungere gli obiettivi desiderati, ma di spiegare cosa possiamo e cosa non possiamo fare. Ecco che le peculiarità dell’azienda vinicola diventano fondamentali: una fazenda da mille ettari in Argentina potrà produrre molti tipi di vino e una miriade di bottiglie, mentre una piccola tenuta come Monteverro arriva a 20mila bottiglie e Jorge, che è il mio cliente, ci chiede di realizzare quanto di meglio possiamo. Questa è la situazione ideale.
La scelta dei vitigni è una sfida che ha a che fare con la terra?
Quando mi chiedono cosa piantare, la prima risposta che darei è: non ne ho idea. Poi però si procede oltre. E anche se non siamo in grado di indicare il posto giusto e il modo giusto, possiamo avere un’idea e ambire ad un buon vino. Però non chiedetemi se sarà un grande vino. Intendo dire che per fare un grande vino non basta indovinare il vitigno giusto nel giusto terroir, serve confrontarsi con i viticultori. E poi investire nelle aziende, utilizzare al meglio la tecnologia. Passo dopo passo si può crescere.
Lei è dunque favorevole ad una gestione manageriale delle case vinicole?
Innanzitutto credo che oggi il business del vino non sia semplice da affrontare. E sempre più si differenziano due livelli: quello dei grandi gruppi, che con grandi produzioni hanno un forte investimento nel marketing e diventano sempre più forti, e quello della nicchia di alta qualità, con produzioni di altissimo livello, con un team affiatato che lavora per fare un ottimo vino.
E come giudica questa polarizzazione?
Non la giudico, vedo che esiste. Vedo due mercati, uno grande e uno più concentrato.
Quali sono le nuove frontiere del vino?
Non le vedo. Vedo che la Cina è un mercato enorme per il consumo e trovano spazio sia i grandi produttori, che fanno la quantità, sia i piccoli che possono vincere sulla qualità con un prezzo elevato.
Quali sono i Paesi emergenti? Esiste un ‘nuovo mondo’ della produzione?
Nonostante i nuovi mondi già affermati, dal Sud America alla Nuova Zelanda, io vedo ancora grandi possibilità di evoluzione per Italia, Spagna, Francia. Ci sono poi singole aziende che producono buon vino in altri Paesi emergenti. Nel mercato c’è sempre spazio e il consumo di vino sta crescendo a livello globale, ma non è tutto facile, si tratta di trovare il proprio ruolo, il proprio posizionamento.
( Fonte Il Sole 24 Ore )