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Montagna e fatica, il vino di Moser

Esplora il significato del termine: Francesco Moser racconta le sue prime vendemmie, ricordi di mezzo secolo fa. Parla di fatica e montagne dure, “che te le devi guadagnare”.

 

 

Per un attimo sembra descrivere una delle sue 273 vittorie in bici. Parlando di vigneti, torna ad essere uno dei “massimi eroi” che Dino Buzzati mise in scena seguendo il Giro d’Italia, uno di quelli che lascia gli altri indietro, “sempre più indietro, separati da valloni e precipizi, lottando tra di loro strenuamente, ma ormai fuori di questione”.

Moser, 64 anni, è un uomo semplice “con 700 mila chilometri sulle gambe”. Ha uno spirito contadino, che lo riporta alla terra anche quando pranza nel miglior ristorante di Milano, il Mandarin: davanti ai piatti a base di cavolfiore dello chef Antonio Guida, spiega che anche lui, all’alba, quattro ore prima di sedersi a tavola, ha raccolto cavolfiori nei suoi campi. Al ristorante si bevono i suoi vini: un piacevole Moscato giallo; il 51,151, un sapido ed equilibrato Trentodoc, Metodo classico, nato per celebrare il record dell’ora su pista a Città del Messico nel 1984, e l’ultimo nato, il Rosé 2011, un Extra Brut che resta per 40 mesi sui lieviti, generatore di titoli facili sulla seconda vita di vignaiolo di Moser (“Dalla maglia rosa al rosé”).

 

( Francesco Moser con Matteo, Francesca e Carlo )

Il figlio Carlo (terza generazione in azienda con la sorella Francesca e il cugino enologo Matteo), forte della laurea in economia e dei mesi trascorsi nella Sonoma Valley in California, spiega i dettagli tecnici: la terra calcarea poco sopra Trento attorno al Maso Villa Walch, i pendii della Valle di Cembra, l’argilla della collina dei Sorni dove crescono i vitigni rossi come il Lagrein. Il padre lascia fare, ma è un uomo di sport e non puoi fermare le sue storie di corse, medaglie, incontri bizzarri, carovane e maglie rosa. E’ diventato professionista a 18 anni, in una famiglia povera in cui “ognuno doveva dare il suo contributo perché per ogni mano abile al lavoro c’erano almeno due bocche da sfamare”, come ha raccontato nel suo libro “Ho osato vincere”, Mondadori. Prima del sellino c’era la campagna.

 

“A 10 anni lavoravo già, raccoglievo le mele e l’uva. Portavo la gerla di legno sulle spalle – ricorda – grattava la schiena, più si imbeveva di mosto, più pesava. Eravamo a Palù di Giovo con mio padre Ignazio, l’uva si vendeva alla cantina sociale di Lavis. Papà mi diceva di non andare in cantina in certi giorni, perché c’era la scimmia che ti tira dentro”.

Il fratello Aldo correva già con Fausto Coppi, anche i fratelli Enzo e Diego erano ciclisti professionisti. Enzo capisce che nel dna di famiglia c’è un gene comune che fa vincere e convince Francesco a diventare ciclista. “Prima in Toscana, poi con la squadra Gbc, quindi passo alla Filotex di Bitossi. Comincio a vincere, intanto Diego si ritira e si dedica alla campagna. Le prime bottiglie di vino le facciamo nel 1976, Chardonnay e Teroldego”.

Nel 1988 anche Francesco si ritira e investe tutto in campagna: “C’era un maso con i vigneti già pronti, Schiava, Chardonnay, Pinot nero, Moscato giallo. Lo acquisto con Diego”. Maso Villa Warth è una dimora vescovile seicentesca, a Gardolo di Mezzo. Moser vive in quella che un tempo era la cappella. All’interno un museo con le 18 bici dei record, le maglie, le scarpette e persino i calzini del campione.

 

“Ora non corro, vado in bici, 5.000 chilometri l’anno. E mi piace lavorare in campagna. Abbiamo 17 ettari di vigneto e produciamo 120 mila bottiglie”. Sui pendii prima scalati in bici e ora coltivati. Salite e discese che, come scriveva Buzzati, “agli occhi dei ciclisti diventano montagne che non si lasciano ingannare”.

 

 

 

 

( Fonte Divini.corriere )