Secondo ricerca Università di Napoli
Anche i non esperti ce la possono fare: l’aroma delle uve Moscato si riconosce a occhi chiusi, ed è così persistente da essere spesso considerato un vino bianco delle feste e o per alcuni il ”vino della nostalgia” in quanto associato a conviviali pranzi della domenica e balli in piazza. Il Moscato ha tante espressioni territoriali, da Asti a Terracina, da Scanzo a Trani fino a Pantelleria. Diverse, ma tutte caratterizzate nel profumo.
Dietro questa emozione sensoriale, c’è una ragione scientifica: il Moscato è un’uva aromatica fortemente tipizzata da una sola molecola, il linalolo, presente addirittura in misura doppia nel Moscato giallo dei Colli Euganei, mentre nella maggior parte delle altre uve autoctone la tipicità è data dal mix delle quantità di aromi (alcoli terpenici come il geraniolo e il nerolo) al punto da risultare per l’enologo più difficili da caratterizzare.
A svelarlo l’esperta di enologia varietale, la ricercatrice dell’università di Napoli Federico II Paola Piombino, in occasione di un convegno promosso a Corato dal Consorzio di tutela vini Doc Castel del Monte. ”Chi beve vino – afferma il membro del gruppo di ricerca guidato da Luigi Moio – è in cerca di una esperienza sensoriale che sia soddisfacente e che sia soprattutto riconoscibile come un unicum. I vini da vitigni autoctoni vengono riconosciuti dagli enoappassionati come originali, e quindi non omologati, grazie alle loro caratteristiche sensoriali”. I ricercatori studiano la materia prima, e in particolare i polifenoli che sono responsabili del colore del vino e la componente volatile responsabile, responsabile dell’odore, dell’aroma del vino.
”Nel trasferirsi da uva a vino – spiega la ricercatrice casertana – nel corso della vinificazione le molecole volatili, le odorose, da decine diventano centinaia e centinaia. Nell’uva c’è una banca di aromi potenziali, i precursori di aroma che in quanto tali sono inodori, ma se opportunamente lavorati, possono arricchire di aromi il vino. Un buon calice – rimarca Piombino – ha preservato gli aromi liberi e ha valorizzato il potenziale”.
Nel confronto tra Aglianico e Nero di Troia, le note erbacee sono simili ma il Nero di Troia ha nella buccia il doppio di aromi floreali rispetto all’Aglianico. Interessante anche il confronto sui precursori aromatici dove l’uva di Troia, terzo vitigno autoctono a bacca nera della Puglia e coltivato su circa 1900 ettari, risulta ricca di una gamma aromatica, dal peperone verde all’odore di fragole e di torta di mele, e nel corso del tempo può tirare fuori aromi speziati. ”Con questi dati si possono progettare diversi vini: se bevuti subito possono esprimere aromi liberi, se longevi quelli speziati. Questa differenza – è l’appello della ricercatrice agli enologi e ai produttori – deve essere salvaguardata, dalla vigna alla cantina. Per l’enologia varietale, che si propone di conoscere la materia prima degli autoctoni per poi trasformarla e conservarla, i dati sul Nero di Troia sono incoraggianti per la sua alta tipicità”.
( Fonte ANSA )