Vino al metanolo, 39 anni fa 19 morti e 23 persone cieche

Storia dello scandalo che ha cambiato il settore

 

Foto Ansa 1986

Era la primavera del 1986 e mi ero appena iscritto al primo corso Ais, devo confessare che se non avessi già versato l’intera quota per il corso, all’epoca circa 600.000 lire una follia, mi sarei ritirato, sbagliando visto come è andata negli anni successivi la rinascita del vino italiano.

Buona lettura

RG

” Il 3 marzo 1986, a Milano, viene trovato senza vita Armando Bisogni, 48 anni. Sul tavolo una bottiglia da due litri di Barbera da 1.890 lire. Nei giorni successivi altre vittime e decine di intossicati. Il 18 marzo la notizia arriva alla stampa: comincia lo scandalo del vino al metanolo, un sistema criminale di adulterazione che ha ucciso 19 persone, ne ha intossicate centinaia e ne ha lasciate cieche 23. Da lì il vino italiano è ripartito per puntare non più sulla quantità, ma sulla qualità

 

 

Armando Bisogni ha 48 anni quando, il 2 marzo del 1986, muore nella sua casa di Milano. Viene ritrovato il 3 marzo: accanto a lui, sul tavolo, un bottiglione di Barbera da due litri comprato all’Esselunga di viale Fulvio Testi per 1.890 lire (poco più di due euro di oggi). Renzo Cappelletti, 56 anni, di Paderno Dugnano (Milano), perde la vita nella sua abitazione il 5 marzo. Aveva bevuto lo stesso vino. In un primo momento questi decessi vengono attribuiti a infarto o a cause ignote: non si sa ancora che Bisogni e Cappelletti saranno le prime due vittime del vino al metanolo, la sofisticazione alimentare che nel 1986 ha scosso l’Italia causando 19 morti, centinaia di intossicazioni e cecità completa a 23 persone. Ma in quei primi giorni del marzo 1986 il mosaico non è affatto chiaro, anzi. Il 6 marzo, all’ospedale Sacco di Milano si presenta Valeria Zardini, 60 anni, che quella sera aveva bevuto del vino Barbera (bottiglione da due litri, 1890 lire) acquistato poco prima con il marito Mimmo Ferlicca. Vomita, perde lucidità, in capo a poche ore resta completamente cieca. I medici parlano di avvelenamento, non si capisce ancora da cosa.

L’allarme sanitario

Come ricostruito, con dovizia di dettagli, da Metanolo, podcast Originale Spotify prodotto da Will Media e Boats Sound che ha ripercorso attraverso la voce dei protagonisti l’origine di una delle truffe alimentari più sconvolgenti della storia italiana, è la data del 12 marzo 1986 a cambiare tutto. Quella sera Benito Casetto, 51 anni, residente in viale Sarca, chiama l’ospedale Niguarda in preda ai crampi addominali. Poco dopo arriva nello stesso pronto soccorso anche Alvaro Antinori, 43 anni, con sintomi simili: dolori addominali, mal di testa e convulsioni. Di turno al Centro antiveleni dell’ospedale milanese c’è Franca Davanzo, medico strutturato: con i colleghi analizza la situazione e capisce che quello è un avvelenamento da alcol metilico o metanolo, una sostanza che normalmente si produce nella fermentazione dell’uva ma in dosi bassissime, mentre è altamente tossica in dosi più elevate. In pratica, avvelena tutti gli organi e attacca il sistema nervoso centrale. Il 13 marzo arrivano al Niguarda altre sei persone, sentitesi male durante una festa: anche per loro si tratta di intossicazione da metanolo.

 

Le dosi killer

Scatta l’allarme tra ospedali: a Roberto Ferlicca, figlio di Valeria Zardini, viene chiesto di portare al Sacco il bottiglione acquistato dai genitori. Le analisi danno risultati tremendi: quel vino è pieno di metanolo, così come quello trovato a casa di Benito Casetto. La dose rilevata è tra i 2 e i 10 millilitri per 100 ml di vino, tra il 2 e il 10 per cento, quando il limite di legge è lo 0,3 per cento per i rossi e lo 0,2 per cento per i bianchi. Un quantitativo tra le dieci e le 50 volte superiore alle dosi consentite. Veleno puro: «Con livelli così, basta un cucchiaio da tavola per sentirsi male», precisa in Metanolo la dottoressa Davanzo. Il direttore del Centro antiveleni del Niguarda si attiva: il telefono di Alberto Nobili, sostituto procuratore della Repubblica di stanza a Milano, suona la sera del 14 marzo 1986 dopo cena, mentre sta giocando a carte con gli amici, come lo stesso Nobili racconta nel podcast. È l’inizio delle indagini che porteranno a ricostruire le fasi della grande truffa.

Il sistema criminale

La notizia sulla stampa compare il 18 marzo 1986, un martedì: sulla prima pagina del Corriere della Sera una breve dal titolo «Tre morti a Milano per vino sofisticato». Nei giorni successivi la notizia si allarga: «Il vino che uccide», «Vino killer», «Veleno in bottiglia». Le vittime aumentano, non solo a Milano ma anche in Piemonte e in Liguria. I Nas di tutto il Nord Italia scattano per sequestrare le partite contaminate: i primi a finire sotto i riflettori sono Vincenzo e Carlo Odore, padre e figlio, imbottigliatori di Incisa Scapaccino (Asti) che poi risulteranno completamente estranei ai fatti. Avevano imbottigliato e distribuito vino adulterato senza saperlo: la loro azienda fallirà, vittima della pessima fama, ma i veri responsabili sono altri. Nel frattempo, in quei giorni di marzo del 1986 i fiumi si tingono di rosso: pare che il Tanaro al mattino fosse pieno di vino al metanolo versato in acqua dai produttori che volevano liberarsi delle prove, e che alcune cantine versassero il liquido velenoso direttamente nelle fogne tramite rubinetti nascosti. Le indagini intanto seguono filoni paralleli: per fermare «l’epidemia» da un lato, e per capire il sistema sottostante dall’altro. «Non fu un errore, fu un piano criminale», ripete Nobili nel podcast Metanolo. Che cos’è successo, esattamente, 39 anni fa? In poche settimane è venuto a galla, purtroppo in modo tragico, un metodo per adulterare il vino di bassa qualità con l’alcol metilico o metanolo. L’adulterazione — l’aggiunta deliberata di metanolo nelle vasche in cui era contenuto il vino prima di essere venduto agli imbottigliatori e distribuito — avveniva per aumentare, velocemente e facilmente, il tenore alcolico del prodotto finale.

«I pirati del vino»

Un sistema che, diranno le indagini, inizia nel dicembre 1985 su iniziativa di un gruppo di sofisticatori esperti, la cosiddetta «banda del metanolo» — chiamata dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi «i pirati del vino» — a cui viene in mente di usare questa sostanza prodotta dalle industrie chimiche, assolutamente mai utilizzata prima nel settore alimentare. Il motivo è economico: nel 1984 il metanolo — molto utilizzato come reagente nei processi industriali, nel settore dei combustibili, per la produzione di legno compensato e di plastiche — era stato detassato per legge, diventando assai poco costoso. Molto meno costoso dello zucchero, che in quegli anni veniva ampiamente usato per «correggere» il vino. Il vantaggio del metanolo è che agisce in poche ore, a differenza dello zucchero che deve fermentare per generare l’alcol in più: grazie a quel composto chimico si poteva partire da un vino di bassissima qualità, a volte anche mosto, addizionarlo e ottenere un liquido alcolico al punto giusto, da vendere poi a un prezzo molto più basso rispetto ai concorrenti. Inoltre si diminuiva il rischio di essere pizzicati dai nuclei repressione frodi, che all’inizio degli anni Ottanta avevano avviato diverse operazioni anti-sofisticazione. Il metanolo sembrava la soluzione perfetta. E poiché all’epoca il sistema dei «tagli» del vino da tavola tra partite provenienti da regioni diverse era la norma, si capisce in fretta che il vino al metanolo era diffuso in tutta Italia: alcuni soggetti avevano trasformato le proprie cantine in «centrali del metanolo», dalle quali partivano cisterne adulterate in direzione Nord, Centro e Sud.

 

I danni al settore

Con lo scoppio dello scandalo, il vino italiano perde la faccia non solo nel mercato domestico, ma anche rispetto ai Paesi importatori: nonostante il certificato di idoneità che il ministro dell’Agricoltura dell’epoca Pandolfi impone a tutte le partite che escono dall’Italia come risposta all’emergenza, la Germania blocca i camion alla dogana. L’Inghilterra fa lo stesso. La Francia ferma e analizza il vino trasportato da 19 navi cisterne italiane al largo di Marsiglia: veniva dalla Puglia ed era contaminato. Alla fine del 1986 il mercato vitivinicolo italiano è in ginocchio: mille miliardi di lire di perdite, un crollo del 20 per cento del valore complessivo del comparto, esportazioni precipitate (meno 42 per cento, meno 80 in Germania), vendite interne crollate (meno 70 per cento). Soffrono anche i produttori di vini di pregio: la macchina del fango è totale.

 

I colpevoli

L’indagine condotta da Nobili porterà all’arresto di sette persone nell’aprile 1986, rilasciate nel 1987 in attesa del processo: si tratta di Giovanni e Daniele Ciravegna, padre e figlio, commercianti di vino di Narzole (Cuneo). «Sono loro a sbagliare clamorosamente il dosaggio di metanolo aggiunto nel vino poi venduto agli Odore — afferma Alberto Nobili ai microfoni del podcast —. Dico una cosa mostruosa per rendere l’idea: è quasi stato un bene che ciò sia avvenuto, perché almeno è stata scoperta la truffa. Altrimenti avremmo potuto avere molte più intossicazioni e morti, magari per anni, senza che nessuno potesse mai pensare che la causa fosse il vino». Giovanni Ciravegna si proclamerà sempre innocente e ignaro: dirà di non sapere nulla del metanolo, pensava che quell’alcol acquistato per arricchire il vino fosse normale etilico, non metilico. Gli altri quattro arrestati sono i membri della banda che gestiva la compravendita del metanolo: Giuseppe Franzoni, Roberto Piancastelli, Adelchi Bertoni e Roberto Battini (questi ultimi due, autisti). Va in carcere anche Antonio Fusco, commerciante di vino di Manduria: il rosato bloccato in mare a Marsiglia era suo.

Il processo

Il processo inizia cinque anni e mezzo dopo, nel novembre 1991, e si conclude il 12 maggio 1993. Gli imputati chiedono il rito abbreviato, con conseguente riduzione di un terzo della pena. Le aziende coinvolte sono 31 tra cantine, grossisti, trasportatori, imbottigliatori. Le pene più pesanti — anche se nessuno le sconterà appieno — vanno a Giuseppe Franzoni, Francesco Regazzini e Giovanni Ciravegna (14 anni); Romolo Rivola (13 anni e 8 mesi); Daniele Ciravegna (13 anni e 4 mesi); Roberto Piancastelli (10). Seguono 5 anni ad Adelchi Bertoni, 4 a Raffaele Di Muro, 3 ad Angelo Baroncini e Raffaele Tirico, 2 anni e 8 mesi a Giuseppe Volpi e Walter Nalin. I reati contestati sono gravissimi: associazione per delinquere, omicidio volontario plurimo, lesioni gravi, adulterazione di sostanze alimentari. L’omicidio volontario chiesto da Nobili viene derubricato a omicidio colposo con dolo eventuale: significa che l’intento non era uccidere, ma lucrare, e che in nome del lucro queste persone avevano accettato il rischio di causare danni a terzi.

 

 

I risarcimenti mai dati e l’altra ipotesi: c’entrano le distillerie?

Nonostante la decisione del tribunale di provvedere a un risarcimento economico per le vittime (dai 20 ai 300 milioni di lire a seconda dell’età e della condizione sociale, per un totale di 4 miliardi), nessun parente e nessun sopravvissuto riceverà mai un soldo perché i colpevoli si fanno trovare completamente nullatenenti. Il 13 maggio 1993 nasce il Comitato vittime del vino al metanolo. E, parallelamente, nonostante le sentenze e le condanne, si sviluppa un’altra teoria: che il vino al metanolo fosse nato non tanto per finire sul mercato dei consumatori privati, ma per incassare i contributi che la Comunità economica europea offriva a chi inviava parte della propria produzione alle distillerie. Il «conferimento obbligatorio alla distillazione» era infatti una misura della Cee decisa a inizio anni Ottanta per gestire le eccedenze nelle annate di sovrapproduzione: era dunque sorto un mercato illegale del vino da distillazione, addizionato con il metanolo che tanto poi sarebbe evaporato negli alambicchi senza far male a nessuno? C’è stato un errore che ha portato questo vino nei supermercati? Questa ipotesi non è mai stata confermata in aula, né i contorni veri e propri dell’uso del metanolo in Italia sono mai stati tracciati.

 

Il contesto dell’epoca: cosa ha portato al metanolo

Fatto sta che questo disastro ha origini ben più antiche, almeno secondo Attilio Scienza, ex docente di Enologia e viticoltura dell’università di Milano, esperto di genetica della vite, storico del vino e soprattutto, all’epoca dello scandalo del metanolo, direttore generale dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige incaricato di controllare tutte le partite di vino che uscivano dal suolo nazionale. «Il caso del metanolo è l’ultima tappa di un percorso che parte ben prima degli anni Ottanta — spiega a Cook il professore —. La crisi del vino italiano comincia a metà degli anni Sessanta, quando si decreta per legge la fine della mezzadria: nel momento in cui i contadini smettono di occuparsi di viti per diventare operai, l’Italia perde la sua tradizione vinicola. I vigneti vengono abbandonati e anche il materiale genetico delle uve si disperde». Questo che cosa comporta? «Che negli anni Ottanta la maggior parte del vino sulle tavole degli italiani non è di qualità, è vino da tavola che si produce per “correzione”: arrivavano in cantina uve cattive e si interveniva parecchio sistemando colore, alcol, acidità… Proprio prima del metanolo le annate erano state particolarmente fredde, gli acini non erano maturati bene perciò c’era ancor più bisogno di arricchire la percentuale di alcol: le correzioni con lo zucchero erano illegali, ma molto utilizzate. La legge consentiva solo correzioni con mosto d’uva concentrato rettificato. Ma anche su questo si faceva della creatività: quando, dopo lo scandalo del metanolo, il ministero dell’Agricoltura dotò l’istituto di San Michele di una macchina per la risonanza magnetica nucleare ci accorgemmo che c’era chi usava isoglucosio di mais dall’Argentina per correggere il vino».

 

 

Gli effetti positivi innescati dalla tragedia

Insomma, senza arrivare al metanolo le pratiche illecite erano tante e diffuse. «C’erano anche i produttori seri, ovviamente, sia di vino da tavola che di vino di pregio — continua Scienza — ma in generale a quei tempi in Italia si beveva il vino come complemento calorico all’interno della giornata, se ne beveva tanto e senza pensare alla qualità. Nella tragedia, il dramma del metanolo ha contribuito a risollevare un intero settore: i controlli sono stati intensificati, le cantine che lavoravano male sono fallite, finalmente i produttori si sono sentiti responsabili non solo della salute delle persone ma anche dell’immagine dell’Italia e hanno agito di comune accordo, i consumatori hanno compreso che dovevano bere meglio e che non potevano spendere così poco per il vino. Anche gli importatori hanno cominciato a pagare di più pur di trovare produttori seri di cui fidarsi». Insomma, tutto è cambiato.

E oggi?

Non è un caso che i produttori, oggi, dicano che «il vino si fa in vigna»: l’obiettivo è avere uve sane da toccare il meno possibile una volta arrivate in cantina, altro che «correzioni». L’enologia si è fatta più leggera, c’è un grande rispetto per la terra, per le pratiche agronomiche. Si studia e si fa ricerca. Ormai il 45 per cento del vino italiano è Doc o Docg, cioè a denominazione di origine controllata (e garantita) e da vent’anni l’Italia si è consolidata nell’export, vendendo fuori dai propri confini circa la metà della produzione. Non solo: oltre ai vini di prezzo medio, è percepita come un Paese in grado di esprimere fine wines, vini di pregio, da collezione e da investimento. Il riposizionamento è stato dunque totale. Ma, su alcuni temi, secondo il professor Scienza serve ancora quella alleanza tra produttori, quel senso di comunità dimostrato dopo il caso del metanolo per affrontare insieme le sfide di oggi: il cambiamento climatico, la crisi dei consumi, le richieste sempre più stringenti in termini di sostenibilità. «Dovremmo anche tornare a considerare il vino come un alimento, un complemento del pasto, non solo come una bevanda da occasione sociale e speciale. Proprio come si faceva un tempo, quando la bottiglia al centro era il pretesto per riunire la famiglia attorno alla tavola». Recuperare, insomma, un approccio più semplice e immediato con il vino. «Con la differenza che quello di oggi è di qualità, ha tendenzialmente gradazioni alcoliche più basse rispetto a una volta ed è fortemente rappresentativo del territorio».

( Fonte Corriere.it/coock )