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GAGGIOLI IL PADRE DEL PIGNOLETTO

Conosco il dott. Carlo Gaggioli fin dalla fine anni ’80 e subito mi sono innamorato dei suoi vini, in particolare del cabernet sauvignon e del pignoletto, nella versione ferma e frizzante.

Per conoscere la storia di questo lungimirante viticoltore rimando a miei precedenti articoli

qui ed anche qui

 

 

Carlo e Letizia Gaggioli

Mi fa molto piacere leggere oggi che, anche la stampa nazionale, gli sta riconoscendo i giusti attestati e meriti di stima per quanto ha fatto in tanti anni per il rilancio della vitivinicoltura dei Colli Bolognesi.

Buona lettura

 

 

 

Gaggioli, il pioniere del vino Made in Bo: “Io visionario del Pignoletto a 92 anni spero che tutti lo bevano coi tortellini”

Faceva il veterinario poi ha investito nel vino autoctono. Esportandolo anche in Cina

BOLOGNA La sua religione è il Pignoletto. Una fede che professa da oltre cinquant’anni all’interno di una liturgia enologica il cui tempio è il suo vitigno di 12 ettari nel cuore dei colli bolognesi a Zola Predosa, territori matildici consacrati al vino fin dal Mille, come testimoniano alcuni documenti dei frati contadini dell’Abbazia di Nonantola. Nessuno più di Carlo Gaggioli ha creduto nelle potenzialità di queste terre argillose ridando vita negli anni ’70 ai vecchi filari del podere Bagazzana, oggi azienda agricola che produce 100 mila bottiglie di vino all’anno. Aiutato nell’impresa anche dalla figlia Letizia cui ha dedicato un’etichetta di spumante rosato col suo stesso nome, disegnata dal pittore Umberto Sgarzi. Dopo oltre mezzo secolo, nessuno gli può contendere il titolo di re della Pignoletto Valley, un fazzoletto di terra benedetto per un centinaio di cantine. La sua storia, però, inizia molto prima, a Montese, dove nasce il 24 maggio 1930 e dove conosce, ben presto, gli orrori della guerra che lo condurranno per tutta la vita a Zola: qui è stato amatissimo veterinario.

Gaggioli, pensando all’Ucraina, ha scritto un post su Facebook sulla Seconda Guerra Mondiale: aveva 15 anni, la casa distrutta.
“Ho un magone indicibile. Ho ancora le schegge nelle gambe. Mio padre muore dopo la Liberazione per un’operazione finita male. Rimasto orfano, coi miei fratelli ci trasferiamo nel 1946 da mio zio a Zola”.

Prima del vino, gli animali.
“Ho studiato al liceo Minghetti, fra i miei insegnanti di filosofia c’è stato anche Padre Marella, ma la santità purtroppo non è contagiosa. Poi è arrivata la laurea in Veterinaria”.

Racconti.
“A 27 anni vinco la condotta di Zola che allora era la più bella del territorio con aziende come Alcisa, Felsineo, oltre 6 mila bovini. Nel 1980 divento responsabile del servizio veterinario dell’Usl di Casalecchio fino alla pensione nel 1994. Nel frattempo, negli anni ’60, compro questo podere piantando le vigne. Nel 1994 faccio la cantina nuova, mentre nel 2008 avvio l’agriturismo Borgo delle Vigne. Nessuno ci avrebbe scommesso, ma io sono testardo”.

Come nasce l’amore per il vino?
“Andavo a far partorire gli animali nelle stalle. Dopo si festeggiava con crescentine e salumi, era tutto buono tranne il vino che era imbevibile. Allora ho provato a farlo io. Dopo più di 50 vendemmie, posso dire di aver vinto la scommessa”.

In quegli anni c’è un suo grande risultato pionieristico.
“Il mio primo enologo era di Conegliano, dove il prosecco è come il latte nel biberon. Sono stato il primo viticultore a produrre uno spumante con uve autoctone dei colli bolognesi: il Francia Brut. L’ho dedicato a Francesco Raibolini detto Il Francia, artista rinascimentale di Zola che ha dipinto queste terre”.

Qualcuno dice che è nato prima lei del Pignoletto…
“Sono stato un visionario, è vero. Andando controcorrente, ho creduto nel vino autoctono delle nostre terre. Sono tra i fondatori del Consorzio dei Colli negli anni ’70. Ma poi avremmo dovuto fare di più”.

Cosa intende?
“Ognuno di noi ha voluto avere la propria cantina, troppe divisioni. Oggi sono una ventina le cantine dei colli che lavoro per davvero. Per stare sul mercato occorrerebbe produrre 250 mila bottiglie l’anno. Prima del Covid ero a 150 mila, adesso mi fermo a 100 mila. Per il 60% lavoro col mercato italiano, il 40% lo esporto in Germania, Svizzera e Cina”.

Poi c’è la sfida col Prosecco. Bologna non sembra crederci.
“Bologna va accerchiata. I ristoratori sono i primi a non crederci. Eppure se vogliono le stelle Michelin devono abbinare al cibo nostrano i vini locali, i piatti migliorano con gli accostamenti giusti. Mettendo in carta i nostri vini pensano di essere provinciali, sbagliano. Per fortuna i turisti cominciano a capirlo e invece del Prosecco, coi tortellini chiedono il Pignoletto”.

( Fonte Bologna.Repubblica.it )