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Gaja: “Il vino artigiano deve avere carattere e stile”

Parla “The Italian Colossus”

Quando esprime pubblicamente un nuovo concetto, lo stanno ad ascoltare.

 

 

Non di rado senza essere d’accordo ma Angelo Gaja fa opinione sempre e comunque. Piemontese di Langa, classe 1940, ha ereditato la passione di una delle grandi famiglie del vino italiano, iniziata dal bisnonno Giovanni nel 1859 e perfezionata dal padre Giovanni – scomparso nel 2002 – che ha tracciato la rotta enologica e imprenditoriale, seguita tuttora con successo. Wine Spectator ha fatto di Angelo Gaja l’uomo copertina del numero di ottobre 2011 definendolo “il maestro che ha guidato il vino italiano ai massimi livelli”. Sono tre le sue cantine. I vitigni in Langa producono nove rossi (Sito Moresco, Barbaresco, Costa Russi, Sorì Tildin, Sorì San Lorenzo, Conteisa, Sperss, Darmagi e Dagromis) e tre bianchi (Rossj-Bass, Gaia&Rey e Alteni di Brassica). A metà degli anni ’90, il winemaker ha deciso di impegnarsi anche in Toscana. Due le tenute: Ca’ Marcanda tra Castagneto Carducci e Bolgheri da dove escono Promis, Magari e Camarcanda; Pieve S. Restituta a Montalcino, in cui si realizzano Brunello di Montalcino, Rennina e Sugarille. Gaja gestisce anche la Gaja Distribuzione, fondata nel 1977, che vende vini e distillati di un’ottantina di cantine estere – a partire da molti grandi Bordeaux, Borgogna e Chablis – nonché i famosi calici della cristalleria austriaca Riedel.

 

Signor Gaja, ha detto recentemente «Quella del vino naturale non è una moda. La direzione è quella e non si tornerà più indietro». Accidenti.

Intanto a ripensarci, naturale è un termine che non mi piace. Meglio se avessi detto “culturale”, indicando un vino meno manipolato e più originale, per quel target di consumatori più di testa che di palato. Ci sono persone che preferiscono una bottiglia magari non perfetta ma che li soddisfa perché sanno come è stata realizzata, in modo diverso dalla massa. Piace il concetto, insomma. In ogni caso, stiamo assistendo a un processo importante, che non può riguardare i vini con un prezzo basso. Aggiungo che oggi il vino naturale-culturale copre il 5% del mercato e per me, tra dieci anni, potrebbe anche arrivare al 20 per cento. Non è poco ma resta sempre l’altro 80 per cento.

 

Sta di fatto che tra naturali, biologici e biodinamici molti appassionati sembrano confusi. È una delle ragioni che posso spiegare un consumo di vino sempre più basso?

Non credo. Io continuo a pensare che si tratti di un calo fisiologico, comunque sia restiamo uno dei Paesi dove si beve maggiormente al mondo. Semmai io vorrei che la quantità globale in Italia venisse “spalmata” su un maggior numero di consumatori che bevessero poco ma bene. Questo sarebbe un successo.

 

Ma sentirà le lamentele di chi va al ristorante o in enoteca? il vino è troppo caro.

Non è colpa della ristorazione. Le garantisco che è più facile trovare vini da due euro venduti a dieci che bottiglie da 30 euro in carta a 60. Sempre stato così, anche con la lira e nei Paesi evoluti – Stati Uniti, Francia e Germania – il vino nei locali è caro, facilmente più che in Italia. Non è il prezzo, è il momento difficile e ora c’è una percezione maggiore di quanto si sta spendendo.

 

Citiamo ancora: «L’artigiano deve fare dei vini che prima di tutto piacciano a se stesso e poi saperli raccontare». Non male, bel marketing.

Il concetto vale solo per i vini voluttuari, perché non amo dire vini di lusso. Per quelli “alimentari” conta il prezzo, il più competitivo possibile. Per gli altri occorre la storia che può essere brevissima o lunghissima ma non se ne può fare a meno. E in questo noi artigiani siamo più bravi, viviamo quotidianamente il prodotto mentre le grandi cantine hanno i loro addetti, i pr e gli uffici stampa. Ma penso che i vini come i nostri siano diventati quello che sono anche per il racconto. Hanno carattere, personalità e stile: sta a me e ai miei figli farlo capire ancora a chi non li conoscono.

 

Proviamo a fissare i cardini del Gaja-pensiero, trasmesso dal padre.

Primo: l’artigiano deve fare uva dai propri vigneti che danno qualcosa di più al suo vino, non dico che farlo con altre uve è sbagliato ma non sarà mai lo stesso. Secondo: la disponibilità alla rinuncia, la capacità di non accontentarsi. Non esiste una bottiglia di vino rosso Gaja del 2002 e sa perché? Non mi piacevano. Certo, bisogna spiegare bene scelte come queste, non si può dire che è stata una pessima annata ma che non sei stato capace come altre volte ed è stato giusto fare così. Terzo: il senso del limite. Mi hanno chiesto di realizzare vini a due-tre euro e ho detto no, perché non è il mio lavoro. E la superficie vitata da 25 anni è sempre la stessa, poco più di 90 ettari: erano 20 ai tempi di mio padre, bastano e avanzano per le 350mila bottiglie annue.

 

C’è altro?

Stare bene sul mercato, centrando il target come si dice adesso: il vino non si svende – magari negli outlet – sarà più prezioso del denaro. E poi – ma questo riguarda solo le aziende familiari come la mia – bisogna saper lavorare al massimo, tutti insieme, talvolta sacrificando delle peculiarità. Non è facile sia chiaro, forse oggi più di ieri.

 

L’80% della vostra produzione finisce all’estero. Non è troppo?

Potrei dirle che è lo specchio della situazione e finirla lì. Ma invece sostengo che il 20% venduto nel nostro Paese è altrettanto importante, tanto più ora dove non si può comprare ogni giorno una bottiglia da sette-otto euro. E non dimentichiamo che tanti stranieri scoprono in Italia il vino e poi lo vogliono bere quando tornano in patria: per questo continuo a curare da vicino la ristorazione per essere protagonista nelle carte dei vini. Mi creda, quando sei bravo da noi, non hai problemi a vendere nel mondo.

 

In uno storico articolo di Wine Spectator – bibbia del settore – lei è stato definito The Italian Colossus. Non male.

Paradossalmente è più facile essere apprezzati all’estero visto che sono ancora pochi gli italiani. Qui da noi ci sono 35mila cantine di cui 3mila cooperative che hanno in mano il 53% del prodotto e fanno una forte comunicazione. Le 28mila circa, gestite da artigiani medi o piccoli, giustamente lavorano per farsi notare. Insomma, c’è una bella lotta. Ma io sono contento della mia considerazione in Italia, anche perché non sono una persona facile o che asseconda la gente.

 

Gaja, ha visto che le scuole alberghiere sono piene di aspiranti chef, lei consiglierebbe anche quelle enologiche?

Sicuramente. In primis, perché sono valide e sfornano un sacco di ragazzi in gamba che sono il presente e il futuro dell’enologia italiana, anzi europea: bisogna far capire che ormai si ragiona per continenti, anche nel vino. Poi l’enologo resta un gran bel lavoro: con un piede vivi nella natura, con l’altro giri il mondo per vedere e imparare. Non ci sono tanti altri lavori così, mi creda.

 

 

 

( Fonte http://www.linkiesta.it/ )