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In Bolivia si produce vino tra i 1600 ed i 2000 metri slm

Non lo sa nessuno, nemmeno i grandi intenditori, nemmeno nelle enoteche dei confinanti argentini che in Bolivia si produce vino. Quando gliel’ho detto, tra un bicchiere e l’altro, pensavano che stessi scherzando e che avessi bevuto troppo.

 

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Invece anche la Bolivia ha una storia vitivinicola che, indipendentemente dalla qualità che oggi riesce a esprimere, merita di essere raccontata.

Innanzitutto si dice che la vite sia arrivata in Bolivia all’inizio del XVI secolo, direttamente dal Perù.

I primi vigneti furono impiantati a Mizque, nella regione centro occidentale di Cochabamba e poi si estesero fino a Chuquisaca, nella parte meridionale dove ancora oggi esistono impianti.

All’inizio del 1600, religiosi gesuiti piantarono la vite nel dipartimento di Tarija, ed è proprio in questa regione e attorno alla omonima città capoluogo che si sono trovate le condizioni migliori per la crescita della vite.

Da un punto di vista geografico la regione di Tarija si trova tra il 21° e il 23° parallelo dell’emisfero sud e i suoi vigneti crescono su un territorio che va dai 1600 metri ai 2400 sul livello del mare; considerando che la produzione vitivinicola mondiale si trova concentrata su latitudini “mediterranee”, comprese tra i 30 e i 50 gradi (Nord-Sud), sicuramente possiamo dedurre che questa regione ha caratteristiche uniche, che non hanno impedito la crescita di una buona uva.

I vini che provengono da località di questo tipo sono detti vini d’altura, cioè vini le cui caratteristiche sono fortemente influenzate dall’altitudine in cui sono coltivate le uve: maggior radiazione solare, che produce un ispessimento della buccia e forte sbalzo termico tra le notti fresche e i pomeriggi assolati, che incide sulla acidità e la “freschezza” del vino. Una particolarità che ho notato solo in Bolivia, i produttori non danno un nome ai loro vini, ma si limitano semplicemente a indicare il vitigno, l’anno di raccolta e dire se è fatto con una sola varietà di uva (monovarietal) o più (bivarietal, trivarietal).

Tarija sorge tra colline di un terreno arenoso e argilloso allo stesso tempo. Conversando con l’enologo di Bodega Casa Grande, ho scoperto che in origine, tutta la zona era un gigantesco lago preistorico e rimangono tracce di impronte di dinosauro e altri resti fossili poco più a sud della città, nel paese di Padcaya.

La mia esperienza sulla ruta del vino di Tarija comincia dalla piazza principale, Luis Fuente y Vargas, specchio di una civiltà contadina e a misura d’uomo, dove la vita scorre lentamente tra una granita e un caffè.

Giornalmente partono dei furgoncini che in pochi minuti si lanciano tra campi di tabacco e canna da zucchero, colline brulle bruciate dal sole e subito dopo, i primi filari di vite.

Chi volesse puntare direttamente a una cantina escludendo le altre può scegliere anche il taxi, in questo caso consiglierei di verificare prima gli orari di apertura, per evitare spiacevoli inconvenienti.

Lasciata la Ruta Nacional 1, dopo una serie di rotonde proseguiamo sulla 11 in direzione di Santa Ana, dove si trovano i vigneti più antichi e la sede delle principali cantine nazionali. Destinazione Bodega Kohlberg, la prima a passare da una logica di produzione artigianale a una industriale, affermando il proprio marchio sul mercato già dal 1972.

Prima di arrivare, tra faggi e palme, vediamo spuntare una cupola d’argento proprio vicino alle prime tracce di vigneto: è un telescopio costruito da maestranze giapponesi, su incarico di finanziatori russi negli anni 70. Dopo anni di lavoro in miniera a Potosì, Don Julio, il fondatore di Bodega Kohlberg, scoprì di avere problemi di salute così decise di tornare a Tarija, dove la famiglia possedeva del terreno agricolo.

Qui Don Julio scoprì, su suggerimento del parroco, l’elisir di lunga vita: con un bicchiere di vino al giorno visse fino a cent’anni. Decise di investire e apprendere l’arte del vino direttamente dal suo curato. Cominciò a vinificare a partire dal 1963 e lentamente si ingrandì, fino agli attuali 180 ettari. Il vigneto di Santa Ana è il più antico con piante di 50 anni.

Vicino ai filari spiccano cespugli di rosa e di erba medica, per favorire l’arrivo di insetti predatori di parassiti, garantendo in questo modo una lotta integrata naturale. Grazie alla bassa umidità e alla grande biodiversità, le viti crescono sane in maniera naturale e gli interventi chimici sono estremamente limitati.

Tutt’altri numeri per le due bodegas artigianali che visitiamo successivamente, Las Duelas e Casa Vieja, la cui produzione è direttamente collegata alla distribuzione diretta.

Da Santa Ana ci spostiamo vicino al villaggio di La Concepciòn attorno al quale si è sviluppata l’area a più alta vocazione vinicola della regione. Alla Casa Vieja, una casona del 1600 appartenuta ai gesuiti poi passata all’imprenditrice Doña Vita, si serve vino artigianale totalmente naturale ai tavoli del ristorante campestre.

Vino patero (da pata, piede), ottenuto pestando con i piedi l’uva, fino a ricavare il mosto senza utilizzare acciaio o altre attrezzature tecnologiche. Si pigiano piccole quantità di uva mettendo il mosto a fermentare in botti grandi per circa 3 settimane in un ambiente fresco col tetto di paglia e muri di argilla; per abbassare la temperatura delle botti non ci sono né serpentine né doppie pareti refrigeranti ma semplicemente si bagna l’esterno con acqua fresca.

Terminata la fermentazione viene filtrato e chiarificato con albume d’uovo, poi torna in botte grande per stabilizzarsi. Dopo circa 3 mesi è pronto per il consumo; un colore chiaro quasi scarico e un leggero spunto acetico sono da interpretare come garanzia di genuinità.

Casa Vieja è anche un ristorante dove la specialità della casa è il chancho a la cruz, maialino cotto lentamente alla brace, abbinamento ideale per un rosso di buona acidità.

 

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Per gli assaggi torniamo in città, a poche centinaia di metri dalla piazza, in calle Ingavi c’è una vinoteca ben fornita e trafficata. Il proprietario, un uomo calmo e gentile, mi stappa qualsiasi bottiglia desidero e un calice lo fa solamente a 100 bolivianos. Decido quindi di approfittarne avidamente.

Il livello medio dei vini non è particolarmente alto, nonostante questo ho trovato alcuni prodotti validi soprattutto nelle riserve.

Ricordo un Malbec 2009 di Bodega Casa Grande, di colore rosso rubino intenso; note di tostatura abbastanza accentuate nel bicchiere e vaniglia. Gradevole in bocca, un vino di carattere internazionale che se la può giocare bene con una categoria di Malbec argentini pensati per il mercato statunitense in particolare.

Il Trivarietal di Campos de Solana, un uvaggio di Cabernet Sauvignon, Merlot e Tannat. Un vino particolare, che aveva fatto un passaggio in rovere francese e americano guadagnandone in finezza e eleganza. Il colore era rosso rubino intenso, con un alto residuo fisso dovuto all’imbottigliamento senza filtraggio che ne ha valorizzato il corpo. I tannini erano quasi al punto giusto; avrebbe potuto invecchiare ancora per qualche anno e sarebbe stato comunque molto gradevole.

Altre cantine valide: La Concepciòn, una delle poche ad essere distribuite in Europa e Stati Uniti, Magnus e Aranjuez.

 

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( Fonte Francesco Antonelli, autore di “Divino Andino – Viaggi e assaggi all’ombra della Cordigliera”, Polaris Editore 2016 )

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Giudice degustatore ai Concorsi Enologici Mondiali più prestigiosi tra i quali:

» Il Concours Mondial de Bruxelles che ad oggi ha raggiunto un numero di campioni esaminati di circa n. 9.080, dove partecipo da 13 edizioni ( da 9 in qualità di Presidente );

>>Commissario al Berliner Wine Trophy di Berlino

>>Presidente di Giuria al Concorso Excellence Awards di Bucarest

>>Giudice accreditato al Shanghai International Wine Challenge

ed ai maggiori concorsi italiani.