Home News Quando Consorzio fa rima con divorzio: storie di vini “indisciplinati”

Quando Consorzio fa rima con divorzio: storie di vini “indisciplinati”

Dalla recente decisione di Gianfranco Fino a Soldera e Gaja, le storie dei produttori che hanno abbandonato la “gabbia del disciplinare”.

 FINO

( Gianfranco Fino )

È storia recente: Gianfranco Fino, produttore e simbolo della rinascita qualitativa del Primitivo di Manduria, ha lasciato il consorzio: sin dall’annata 2015 il suo prestigioso e premiatissimo ES non sarà più Doc. Una scelta difficile, dettata dalla divergenza di obbiettivi del Consorzio e del vigneron tarantino sull’area di denominazione e le modalità di imbottigliamento.

 MONTEVERTINE

( Montevertine, nel cuore del territorio del Chianti )

Non il primo e, presumibilmente, nemmeno l’ultimo di questi divorzi clamorosi, spesso dettati da disciplinari o troppo vaghi o addirittura troppo restrittivi, per i vini e, in alcuni casi, per la personalità dei produttori. Basti pensare al grande e compianto Sergio Manetti, colui che diede vita e slancio a Montevertine, azienda-mito del Chianti Classico, entrata ormai nell’olimpo dei grandi produttori internazionali. La sua richiesta, avanzata nel 1981, per modificare il disciplinare affinchè si potesse produrre un Chianti Classico da sole uve Sangiovese, nello specifico dalla vigna del Pergole Torte, fu rifiutata e segnò l’uscita dell’azienda, e di tutti i vini prodotti, dalla denominazione decretando la fine della produzione proprio del Chianti Classico.

 

Una scelta coraggiosa, in un periodo in cui avere la fascetta con il Gallo Nero era molto importante, un’esigenza nata dal desiderio di non vedere più il Sangiovese chiantigiano essere “diluito” da Malvasia e Trebbiano come prevedeva la pratica del Governo all’uso toscano; eppure, Sergio prima e suo figlio Martino poi, riuscirono grazie ai loro vini a imporre il proprio marchio, la propria visione del Chianti Classico, non cedendo mai alle lusinghe a base di Merlot e Cabernet. Una visione vincente a cui arrivò negli anni anche il Consorzio stesso: via le uve bianche e sì alla possibilità di produrre vini da Sangiovese in purezza.

 GAJA

( Angelo Gaja )

E che dire di Angelo Gaja? Il suo addio nel 2000 alle due più importanti denominazioni delle Langhe, Barbaresco e Barolo (solo per i Cru, il Barbaresco base rimase nella denominazione), fece molto scalpore. Molti associarono questa scelta alla volontà dello famoso produttore di voler “contaminare” la composizione dei due vini con una piccola percentuale di altre uve. Si fece riferimento solo alla Barbera (di sicuro negli anni passati entrata in gioco in qualche Barolo e Barbaresco, per il suo sostegno acido), i più sospettosi pensarono che in realtà i vitigni potessero essere altri e di stampo ben più internazionale, anche in base alle mode del momento storico, dando vita a una sorta di Super Piemontesi in risposta agli omologhi toscani.

I prestigiosi Cru, i famosissimi “Sorì” (termine dialettale per indicare le vigne ben esposte al sole) divennero dei Langhe Nebbiolo, con la possibilità quindi di vedere il principe dei vitigni piemontesi accompagnato dal 15% dei vitigni idonei alla coltivazione nella regione (tra cui molti internazionali). Quello di Angelo Gaja però non fu un addio ma un arrivederci: con l’annata 2013 infatti i suoi Cru sono rientrati nelle rispettive denominazioni, un ritorno accolto con favore da tutti. Agli occhi di molti una “vittoria” dei Consorzi che hanno tenuto duro in un momento in cui il mondo puntava su vini molto più fruttati e concentrati, probabilmente un percorso necessario che ha permesso all’intero areale delle Langhe (e a Gaja stesso) di maturare e consolidare la propria forza, ribadire le potenzialità di territorio di prim’ordine a livello mondiale. Il connubio tra il Nebbiolo e le sue colline è indissolubile.

 SOLDERA

( Gianfranco Soldera )

Altro discorso ancora è quello riguardante il caso di Gianfranco Soldera: uno dei paladini del Sangiovese a Montalcino, uno dei capisaldi della “resistenza” che vide più volte insidiato il Brunello da vitigni internazionali. Soprattutto dopo la tempesta di “Brunellopoli” nel 2008, inchiesta-scandalo in cui alcuni dei prestigiosi vini della denominazione vennero scoperti contaminati da vitigni diversi dal Sangiovese (in particolare il Merlot). Il punto di rottura, in tutti i sensi, però avvenne in seguito a un gesto sconsiderato, datato 3 dicembre del 2012: un ex-cantiniere, in seguito condannato, si introdusse nelle cantine di Soldera sversando 600 ettolitri di Brunello Riserva (unica tipologia prodotta dall’azienda).

 

Si parlò di una vendetta personale, il mondo del vino mostrò solidarietà per l’accaduto in cui si perse buona parte delle annate in affinamento comprese tra la 2007 e la 2012. Solidarietà che il Consorzio dimostrò cercando di offrire a Gianfranco Soldera del vino dei propri associati, una sorta di Brunello della solidarietà da etichettare e vendere come proprio. Non trovando d’accordo proprio Gianfranco Soldera che, da produttore qualitativamente intransigente quale è, prese l’offerta al pari di un insulto, una presa in giro per il consumatore. Uscì dal consorzio e con lui i suoi vini, oggi non più Brunello di Montalcino ma Toscana Rosso IGT.

 

Questi sono alcuni dei casi più famosi, molti altri esempi ce ne sono in seguito alle bocciature delle commissioni di assaggio che stabiliscono l’idoneità o meno del vino, come nei casi di Podere le Boncie di Giovanna Morganti nel Chianti Classico, Pacina di Stefano Borsa e Giovanna Tiezzi nel Chianti Colli Senesi, Cantine del Barone di Luigi Sarno nel Fiano di Avellino.

In molti casi i no delle commissioni ai vini sono stati decretati in base a disciplinari vaghi nel descriverne le caratteristiche: ad esempio un parametro del tipo “odore: gradevole, intenso, fine, caratteristico” cosa può indicare di un vino? Caratteristico di cosa? Del territorio di provenienza e/o del vitigno? Ma soprattutto: rispettando l’uvaggio del disciplinare e i parametri chimico/fisici da esso previsti, al netto di problemi evidenti, perché un vino dovrebbe essere bocciato per il solo difetto di non essere “allineato” alla discrezionalità del gusto di chi giudica? Un peccato per le denominazioni italiane che dovrebbero invece trarre forza dalla coralità delle voci che interpretano i nostri grandi territori.

 

 

 

( Fonte Repubblica )