Dopo mezzo secolo ha il marchio Doc il 70% della produzione
Doc, l’acronimo più famoso d’Italia, compie cinquant’anni. Era nato ufficialmente il 12 luglio 1963 con il severo Decreto legge n. 930, istituito su proposta di un senatore democristiano di Casale Monferrato, Paolo Desana, per mettere ordine nell’intricata giungla dei vini italiani.
Ma ben presto la Denominazione di origine controllata ha superato i confini di etichette e bottiglie e si è conquistata uno spazio nel linguaggio e nell’immaginario comune, diventando sinonimo di qualità e ricercatezza. Doc è anche un film da intenditori, un paesaggio intatto, un legame saldo con il territorio, un itinerario selezionato, un prodotto realizzato con cura anche se non è né da bere, né da mangiare. Renzo Arbore usò l’acronimo per dare il titolo a una trasmissione musicale di culto andata in onda su Raidue nel 1987. E se proprio si vuole strafare, si può ricorrere anche alla sorella maggiore Docg: la Denominazione di origine controllata e garantita nata anch’essa in ambito enologico, nel 1980.
Circoscrivendo il terreno a vigneti e vini, oggi la mappa delle denominazioni italiane conta ben 521 riconoscimenti: oltre alle 330 Doc e alle 73 Docg, ci sono anche le 118 Igt, ovvero le più recenti e meno selettive Indicazioni geografiche tipiche. Tutte insieme, rappresentano il 70% della produzione vinicola italiana, ma con grandi squilibri e qualche confusione garantita al pari dell’origine.
Se da una parte c’è la neonata Doc Sicilia, la più grande d’Italia per estensione del vigneto, o il Prosecco Doc, che produce oltre 200 milioni di bottiglie, dall’altra ci sono denominazioni minuscole come il Loazzolo Doc, realizzato in non più di tremila bottiglie da un pugno di produttori della bassa Langa astigiana.
Cinquant’anni fa, la legge sulla Doc fu emanata per dare una carta d’identità e proteggere dalle imitazioni i prodotti tipici della cultura enologica italiana. I francesi lo fecero molto prima, istituendo già a inizio Novecento l’Appellation d’origine contrôlée (Aoc) a favore del Cognac.
Dal 2009, con l’approvazione della Ocm Vino, i vari marchi dei singoli Stati sono stati assorbiti nella nuova Dop (Denominazione di origine protetta) controllata direttamente da Bruxelles, ma di fatto continueranno a vivere e (un po’ meno) a proliferare.
Dunque, viene da chiedersi: quanto è ancora valido ed efficace questo sistema? «Molto» risponde Giuseppe Martelli, presidente del Comitato nazionale vini presso il ministero per le Politiche agricole e direttore generale di Assoenologi.
«In mezzo secolo è cambiato tutto, ma l’importanza e il ruolo delle denominazioni è rimasto immutato. E se fino a 35 anni fa il vino da tavola rappresentava il 90% della produzione, oggi la percentuale è quasi capovolta e rappresenta un punto di riferimento per il consumatore».
Tuttavia, qualcosa potrebbe essere migliorato: «Ci sono tante Doc che si sovrappongono, alcune addirittura non vengono neppure rivendicate ed esistono solo sulla carta. Se vogliamo migliorare la situazione, oltre alle viti dobbiamo potare drasticamente anche i campanili. Ma è un traguardo che si può raggiungere solo se c’è una seria volontà politica di lavorare per il bene comune».
Un discorso che trova d’accordo anche il presidente di Federdoc, Riccardo Ricci Curbastro. «Il sistema delle denominazioni italiane è un patrimonio pubblico che dà lustro all’immagine dell’Italia nel mondo, garantendo al 100% ogni singola partita di vino e la sua rintracciabilità».
Ma se un terzo delle denominazioni rappresenta l’80% della produzione, forse qualcuno ha esagerato. «È vero – conferma Ricci Curbastro – la corsa a ottenere il riconoscimento ha spesso creato inutili zavorre e generato confusione soprattutto tra gli stranieri: c’è senza dubbio spazio per fare sintesi, anche perché l’ottenimento della Doc non è un PREMIO, ma l’inizio di un percorso».
( Fonte La Stampa )