Parolari, il nonno di Arco si racconta: «Durante la seconda guerra per placare la fame rubavo ciliegie. Cosa mi manca del passato? La gente cantava sempre»
ARCO. Ha 106 anni – compiuti lo scorso 25 ottobre – il più anziano arcense, Livio Parolari. 106 anni vissuti quasi interamente ad Arco (escluso un periodo trascorso a Vigo Lomaso e a Dasindo con la madre e i fratelli, mentre il padre era soldato nella prima guerra) e festeggiati, di recente, in compagnia di amici, parenti e del sindaco Alessandro Betta. Così tanto tempo passato in questo stesso posto, che pare impossibile non domandargli come fosse, qui, quando lui era bambino. «La cosa che ricordo di più è che una volta si cantava. Si cantava sempre. Non c’erano le macchine a far rumore e non c’era neanche tutto questo silenzio. Mentre la gente lavorava nei campi o sugli olivi, intonava qualcosa, e poi la voce si spargeva fino all’altro lato di Arco.»
Sorride, Livio (e si scusa per non aver messo la dentiera, che gli dà fastidio), nel raccontare questi piccoli, semplici momenti di vita. Nato nel 1909, porta con sé più di un secolo di ricordi: dalle guerre, all’avvento della radio e della televisione, all’invasione dei paesi da parte di auto e supermercati, eppure quel che preferisce raccontare non ha nulla a che fare con la politica o il primo viaggio sulla Luna, è solo quotidianità e calore umano. Non ci parla di soldati o della sua esperienza, seppur breve, nella seconda guerra mondiale, ma di quando, per “arrotondare” il misero pranzo, rubava le ciliegie; non ci ricorda Mike Buongiorno e il primo canale Rai, ma come «con la radio in casa, anche se eravamo poveri e avevamo poco, ci trovavamo sempre tutti insieme a ballare, a fare festa» e, più che per ogni altra cosa, gli occhi gli brillano nel ripensare a quando in casa arrivò la cucina economica.
Poco importa se al potere ci fosse Mussolini – ce lo cita solo per una battuta sulla “tassa celibi”, che lo ha fatto pentire d’aver preso moglie a 33 anni -, Berlusconi o Renzi, quello di cui Livio ama parlare è il suo lavoro. O meglio, i suoi lavori. Dopo aver finto la maggiore età (ne aveva solo 16), fu inizialmente assunto al cementificio per alcuni anni; tornato dalla guerra, si dedicò alla campagna – di proprietà e come mezzadro -, ma soprattutto all’attività che lo rese celebre in paese: «una volta tutti avevano bestie in casa. Io andavo da ognuno e aiutavo ad ucciderle, a lavorare la carne e a preparare gli insaccati. In più aiutavo uno dei miei figli alla macelleria in via Segantini».
Una vita, vissuta con gioia e con semplicità, di amore per il lavoro, per il “fare” (il figlio racconta come fino a pochi anni fa ancora si dedicasse i suoi olivi) e anche per il cibo. Non ci sa dire con certezza se sia questo il segreto della lunga vita, ma, ci spiega «ancora faccio colazione con pane e lardo. A pranzo ancora mangio polenta e crauti e, quando posso, non disdegno neppure un bicchiere di vino». Sottolinea poi anche come la carne non sia mai mancata nella sua dieta: un’affermazione che sembra quasi una frecciatina alla moda imperante del veganesimo e alle ultime notizie sui danni provocati dalla carne rossa, a testimonianza della grande ironia e prontezza di spirito di quest’uomo di 106 anni che, anche in nostra presenza, ancora gioca a carte.
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