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Visti da (molto) vicino/ Gianfranco Fino Il vino da Jo a super Es

Apre la portiera, si china e sorride. «Sono Simona, diamoci del tu. Andiamo qui al bar per un caffè, in cantina c’è troppo frastuono». E chi fiata? Arrivi a Sava dopo aver attraversato i vigneti di Guagnano, Salice e anche Manduria. Distese che rallegrano l’umore ma solo alla vista innalzano il tasso alcolemico.

 

L’espressione del volto, sommata alla sorpresa per l’irruzione in auto, tradisce un vuoto passeggero. «Simona», ripete infatti. Ok, ok. Speri in un espresso salvifico, ma il fuoco incrociato audio-video da sopra il bancone spara Vasco a tutto volume. Onde sonore e onde cerebrali non sempre vibrano sulla stessa modulazione di frequenza. La prima vittima, tuttavia, è il cameriere: arriva col macchiato caldo, non freddo. Ma almeno l’espresso si salva. La storia è una storia intensa, rapida, incalzante. E anche commovente. Perciò richiede attenzione. Da zero al top in cinque anni. L’accelerazione è da messa in orbita.

Si parte.

Il vino è amore. Se non è amore diventa affare, altro sapore, altri miscugli. Non interessa. Qui invece è quel che deve essere: profumi intensi, ampi, complessi. Sguardi profondi, occhi lucidi. Alberelli, terra rossa. E una scommessa. In principio l’Es. Come istinto. Passione sfrenata. Al di là del bene e del male, piacere assoluto. Il vino è amore, già. E follia. Simona è Simona Natale, 44 anni tra pochi giorni. Sarebbe anche la moglie di Gianfranco Fino, tarantino come lei, sei anni più grande, autore nelle ultime tre stagioni del miglior vino d’Italia (e del più buon Primitivo del mondo, ma sì: noblesse oblige). Poca la terra, limitata la produzione, in affitto la cantina. E qualità da urlo. Comunque: per essere precisi moglie lo è, ma la definizione anagrafica è classificatoria e perciò riduttiva. Qui al palato e all’olfatto capisci l’impresa. Nella gioia e nel dolore ci sono dentro, loro due. Compagni di vita e d’avventura. Ecco il termine giusto.

Dunque.

«Gianfranco è precisino, molto attento. Carattere forte. Volitivo. Un rompicoglioni, insomma», spiega Simona. Sarebbe stato un ottimo ufficiale dell’Aeronautica. O dell’Esercito. Era un predestinato. Due generali in famiglia, ramo aviazione, più diversi comandanti di truppe a terra. E il padre, civile, al Centro elaborazione dati del Dipartimento militare marittimo di Taranto. Circondato. L’orizzonte prossimo per lui, da ragazzo, avrebbe contemplato il passaggio da Napoli, scuola militare “Nunziatella”. Ma il piccolo non si arrese alla dinastia e si oppose: se proprio devo andare fuori – disse in sostanza – sarà per Locorotondo, Istituto tecnico agrario Basile-Caramia, ramo viticoltura ed enologia. Aveva 13 anni. Niente stellette, solo bicchieri nel suo cielo. A 15 anni il primo vino: convinse un vicino di casa, a Taranto, a mettergli a disposizione il vigneto. Vendemmia, tini e bottiglie: un gioco per lui e i suoi amici, poi destinati a fare altro, gli ingegneri, i gioiellieri, come Aldo Lucaselli, che ancora se lo ricorda e assieme ci ridono su. Poi venne la facoltà di Agraria a Potenza. E il lavoro. Con l’olio.

Appunto.

L’olio. «Erano gli anni del metanolo. I giovani si tenevano un po’ alla larga dal settore. Così Gianfranco – spiega la moglie – scelse di imboccare la strada degli uliveti: piano di miglioramento delle produzioni e quant’altro, soprattutto con Arturo Semerari, ora presidente dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, l’Ismea». Ma gli incroci della vita riservano sorprese da non credere. E lui al crocevia di passione e impegno trovò Luigi Veronelli, enologo, gastronomo, scrittore. Presentazioni superflue. «Nella sua guida degli oli italiani mancavano le eccellenze di Puglia. Gianfranco lo cercò al telefono e glielo contestò. Le migliori collaborazioni cominciano con incidenti di percorso. Così quei due. Il disciplinare per gli oli denocciolati monocultivar porta la loro firma». Fu lui, Veronelli, a ricondurre Fino dritto dritto nel vigneto smarrito. Il pretesto, l’avvicinamento dei grandi produttori di vino all’olivicoltura. «Gino glielo disse chiaro: sei così bravo, non puoi trascurare il vino». Lui non lo trascurò.

Affatto.

«Per i 40 anni chiese in regalo una vigna: “Ho trovato quella dei miei sogni”», ricorda Simona. Poco più di un ettaro a Manduria coltivato ad alberello, cinquant’anni di frutto alle spalle. Era il 2004 e loro sposi da un paio d’anni. Si erano conosciuti a Natale, nel 1999. Da pochi giorni entrambi liberi. Lui presidente del Centro velico “Alto Jonio”. Lei con la voglia di recuperare energie e vitalità. È avvocato, Simona. Più correttamente, lo era. Laurea a Bologna, rientro a Taranto, approdo in Assindustria per guidare la società di servizi, poi l’agone forense. Con qualche vincolo e diversi limiti, considerata la professione del padre, medico legale e consulente del Tribunale. Fu strambata per entrambi, tra boma, randa e verricello: il 14 febbraio successivo il fidanzamento. La data ricorrerà. Poi la proposta di matrimonio, al rientro di Gianfranco da una regata velica. «Lo accompagno a casa, lui scende, fa pochi passi e ritorna da me: devo domandarti una cosa – dice – mi vuoi sposare?». Non fu facile chiedere la mano di Simona al padre, seduto e diffidente sulla poltrona: “Ma per caso sei incinta?”. Non lo era. Il matrimonio e tutto il resto. Lei dall’inizio è la responsabile commerciale dell’azienda. In casa nessun marmocchio, solo un labrador, Allegra, regalo per i 40 anni di lei. Arriva da San Patrignano. Una storia nella storia: lei ci pensa e le lacrime tremolano tra ciglia e palpebre. «Collaboriamo con quella comunità. E con un’altra, a Catanzaro, “La casa di Nilla”, destinata ai bambini. È il nostro modo di dire grazie a Dio per quello che siamo, per quello che abbiamo». Incursione nell’intimo. Non una parola di più. Ma non è l’unico ringraziamento.

Proprio no.

«A volte sento come una voce che mi consiglia. Ci sono dei momenti in cui prendo decisioni che anche Gianfranco stenta a comprendere». Pensa alla suocera. Un legame profondo cresciuto in fretta. Se ne è andata pochi giorni dopo il loro matrimonio e una lunga malattia. «Un biglietto bellissimo per salutarci: “Abbi cura di mio figlio”. Sarà che siamo nate nello stesso periodo, il 24 maggio lei, il 25 io. Una donna bellissima. Ci siamo conosciute e piaciute. In lei mi ritrovo molto». Urgono fazzoletti. La voce, si diceva. Prendi la vendemmia 2009. Piove da far paura. Addio raccolto di Negroamaro: troppa acqua, bassa gradazione. Lei s’impunta: l’uva non si butta. Lui cede: sarà imbevibile; qualsiasi cosa verrà fuori, quel vino sarà tuo. Ventiquattr’ore nei tini; sei mesi in botte; 44 in bottiglia. Il 14 febbraio scorso (eccola la ricorrenza) il primo assaggio per una degustazione a Bologna. Spumante eccellente, 800 bottiglie magnum, non una di più. L’etichetta parla chiaro: “Simona”, ovviamente. «Ma siccome prima o poi volevo far capire a mio padre cosa ne era stato di sua figlia laureata avvocato e rinata contadina ho voluto l’accostamento del cognome». “Simona Natale”.

Prosit.

È l’ultimo nato in casa. Appunto per caso. Dopo il primo, Es, Primitivo, passione e piacere. Dopo Jo, Negroamaro, omaggio al mare che da queste parti bagna la terra. Questo è stato, dal 2004 ad oggi. La vigna acquistata con un mutuo rinegoziato e la casa di Taranto, a Lama, in garanzia. Le prime attrezzature, più un angolo di cantina preso in affitto a Lizzano e la bottaia – sempre in affitto – a Talsano. E otto barriques, quattro nuove e quattro no, comprate dagli Apollonio che le hanno svuotate per loro. «Su ognuna delle prime 2.740 bottiglie, quelle del 2004, ci sono le impronte delle mie mani. Le abbiamo riempite a una a una e riposte nei cassoni di legno». Prima degustazione al Critical Wine di Milano, al Leoncavallo. Seguono i riconoscimenti, i premi, gli attestati delle firme che animano l’Olimpo dell’enologia: Gigi Brozzoni, Daniele Cernilli, per dire. Da tre stagioni l’incrocio delle cinque guide del settore premia Es come il vino più buono d’Italia (e il Gambero rosso Gianfranco Fino come viticoltore dell’anno per il 2010). Mai accaduto da queste parti. «È potuto avvenire perché la Puglia è cresciuta, tutto il movimento è cresciuto. Penso soprattutto ai giovani, agli Apollonio, ai Cantele, ai Pietraventosa. E con loro tutti gli altri». Scorci di vita che parlano di solidarietà, non di concorrenza. «Nel 2010 un’allerta meteo annuncia grandine. Ci viene un colpo, dopo il disastro dell’anno prima. Cantina occupata, nessun recipiente per anticipare la vendemmia del Negroamaro. Da Gioia del Colle gli amici di Pietraventosa con un tir ci inviano un tino d’appoggio: salvi».

Un’avventura.

L’estensione dei vigneti è cresciuta, tra Sava e Manduria: sedici ettari di Primitivo e uno di Negroamaro. Quanto alla cantina sono ancora in affitto, in attesa che la burocrazia la smetta di fare i capricci. Per ora contano su un gruppo ristretto di persone, che con loro coltivano sogni e passione: Ciro il cantiniere, Viviana in amministrazione, Fernando e Giovanni sui campi, più gli stagionali. «Gianfranco ha una forza incredibile. Studia e lavora dall’alba alla notte. Il suo riferimento è la Borgogna. Il suo motto è tradizione in vigna e innovazione in cantina; solo il freddo come alleato. Testardo, hai voglia. Ma anche ansiogeno. Fortuna che quando crolla ci sono io a sorreggerlo. Ci compensiamo, ecco. L’ho visto in crisi solo una volta, un anno che Mesckinella – la contrada del Primitivo, la prima – diede poca uva: sbiancò, si sedette sul muretto e si mise a piangere». Sia: l’uomo è come la vigna. Dà il meglio di sé quando soffre. E trova da sé le energie. Per amore. E per follia.

 

( Fonte Quotidianodipuglia )

 

P.S. ) Cosi’ ne scrivevo nel 2009, quando Gianfranco e Simona erano ancora lontano dai riflettori mediatici :

https://www.winetaste.it/il-cognome-del-produttore-e%C2%92-fino%C2%85-ma-il-suo-primitivo-e%C2%92-fine%C2%85%C2%85/