Il dibattito in Europa sul vino dealcolato sta sollevando più polemiche di quello che dovrebbe. Paolo De Castro e Gian Paolo Gavioli ci spiegano quello che c’è da sapere sul tema
In Europa e in Italia si sta facendo un po’ di confusione sulla definizione del vino. Figurarsi su quella del non vino. A Bruxelles si è aperto un dossier sul tema del vino dealcolato ed è scoppiato un putiferio di parole. C’è pure chi parla di vino annacquato. Non è così, il problema è più complesso e non c’entra niente l’acqua. C’entra l’alcol. E l’Europa naturalmente. “Ma siccome in Italia lo sport nazionale è attaccare a prescindere l’Europa ecco che si sono dette tante cose sbagliate su questo argomento”, chiarisce subito da Bruxelles Paolo De Castro.
Letto così il non vino, per gli italiani è un tema che sfiora il paradosso, per tradizionalisti e non solo. Il tema è molto ampio invece, investe settori economici (un nuovo mercato), salutistici (un’esigenza di alcuni Paesi vittima di consumi errati di alcol) e culturali.
Partendo dalla salute si parla, in particolare, di un problema che investe alcuni paesi del Nord Europa e di abitudini di consumo da contrastare. “Una lotta, quella dell’alcolismo sulla quale in Europa siamo tutti d’accordo. – dice De Castro, già presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Ue e due volte ministro delle Politiche agricole – Infatti, nessuno dice che il vino dealcolato sia la soluzione. Può essere una strada per quei paesi che consumano una quantità esagerata di bevande alcoliche concentrando il momento nel fine settimana, mentre nel sud dell’Europa, Italia, Francia e Spagna, distribuiscono questa abitudine di consumo tradizionale lungo la settimana. Là tutto si concentra in pochi giorni con effetti disastrosi: Su questa differenza bisogna ragionare”.
C’è poi un tema economico, di marketing. C’è un nuovo prodotto per un mercato globale del vino che chiede anche il non vino. È un mondo di consumatori a cui si rivolge questo nuovo mercato. Il paradosso è che si parte da un’esigenza e da un problema europeo, del nord Europa, che non è un mondo di importanti consumatori del vino.
Tuttavia, il mondo globale del vino si è già mosso nella direzione del vino dealcolato come ci spiega Gian Paolo Gavioli, fra i più quotati esperti del mercato internazionale del vino. Che ci stupisce con questa fotografia: “Se parliamo di vino dealcolato stiamo parlando di un mercato internazionale già presente, vediamo quanto avviene già in America col marchio Fre, prodotto dalla Trinchero o in Germania da Schloss Wachenheim col marchio Light Live o in Sud Africa. Per restare in Europa in Germania alcune cantine hanno investito in modo importante in impianti tecnologici con investimenti di oltre 10 milioni di euro e che rimuovono l’alcol dal vino, cercando di mantenere le caratteristiche del prodotto. E con un mercato finale che spazia dall’Europa agli Stati Uniti al Medio Oriente”.
La questione è all’origine, e sta nel nome. “Non chiamatelo vino”, spiega Gavioli, “un vino dealcolato è un vino dove si rimuove l’alcol. È un prodotto che ‘proviene’ dal vino da cui estraggo l’alcol. Quello che conta è che al consumatore vengano comunicate in maniera chiara le informazioni di quel prodotto e che esso subisca tutti i controlli del caso. Non bisogna confondere il rispetto per la tradizione del vino con questo che è il frutto di innovazione tecnologica, la tradizione non deve avere paura e la paura non può esistere se la legislazione è chiara. Non ci deve essere confusione”.
Non si può chiamare vino un prodotto fatto da alcol e aromi, ad esempio. “Il vino dove viene separato l’alcol deve arrivare da un processo garantito e certificato”. D’altro canto nel vino non viene aggiunto mosto concentrato proveniente da un processo tecnologico? Concentrare o togliere sono i due opposti del ragionamento. E ci vogliono le regole. C’è dunque una formula a zero gradi che piace a chi è attento alla salute, a chi deve promuovere campagne anti-alcol, a chi vuole una alternativa al bicchiere d’acqua o alla birra senz’alcol. Ma c’è un altro bicchiere mezzo pieno: “Nessuno dice che questa può essere una risorsa per i nostri agricoltori, salvaguardando l’identità del luogo di produzione e di imbottigliamento, ad esempio, potrebbe essere una strada per recuperare reddito da un mondo del vino che soffre di sovrapproduzione. Di sicuro, salvaguardando le Docg e le Doc, si potrebbe pensare a permetterlo con delle Igt che valorizzino magari la storia varietale, e che mantengano saldo il legame con il territorio di un prodotto in Italia, fatto bene, e non ovunque, questo sì che potrebbe essere un vantaggio”.
Paolo De Castro, tornando sulla proposta della Commissione con apertura parziale ai vini senza alcol ribadisce che: “Noi restiamo convinti che un vino senza alcol non può essere definito tale, per questo il Parlamento si è sempre espresso contro, anche se comprendiamo le opportunità commerciali e d’export che vini a basso tenore alcolico avrebbero in alcuni mercati”.
Riguardo le denominazioni, non a caso da Bruxelles, Paolo De Castro spiega con fermezza: “Abbiamo votato contro come parlamento al vino dealcolato a denominazione, può andare bene per i vini da tavola, questo è l’orientamento del parlamento”.
Si salvi la storia dunque e per fortuna delle grandi Denominazioni, dal Frascati, al Chianti, al Soave… Si salva il vero mercato del vino. “Stiamo parlando di un mercato che non deve preoccupare il vino made in Italy – conclude Gavioli – un prodotto che fra l’altro non è di primo prezzo e che in molti mercati ha il vantaggio di non pagare i dazi che ha il vino. La vera questione riguarda gli investimenti. C’è qualche imprenditore in Italia disposto ad investire in maniera rilevante in questo settore zero alcol?”
Le denominazioni non devono avere paura. La cultura del vino, della tradizione e del patrimonio legato anche all’enoturismo non si toccano. Purché non la si butti sulla salute. Attenzione però a non correre troppo con la fantasia e le interpretazioni europee. Piuttosto si può puntare alla concretezza. Fra effetti disastrosi della Pandemia e delle recenti gelate su Francia e Italia, c’è poco da stare allegri nel mondo del vino. I viticoltori lottano come leoni in questi mesi post Covid 19, cercando nuovi mercati globali del vino senza bisogno di snaturarsi, nella loro profonda tradizione di gente che fa il vino da sempre. Con l’alcol.
“Sulla possibilità di aprire il mercato a vini totalmente senza alcol, il negoziato è aperto e siamo pronti a valutarne la convenienza, ma solo per i vini da tavola, non certo per quelli a Indicazione geografica. Nessuna norma potrà comunque essere imposta ai viticoltori, perché la scelta finale su un’eventuale modifica del proprio prodotto rimarrà nelle loro mani, con i necessari cambiamenti dei rigidi disciplinari interni di produzione”, taglia corto Paolo De Castro.
Dunque la parziale apertura ai cosiddetti vini dealcolati registrata durante i negoziati inter-istituzionali sul regolamento sull’Organizzazione comune dei mercati che entrerà in vigore nel 2023, insieme alla futura Pac assume una diversa connotazione. Senza acqua.
Il Dossier “no wine” dovrà tenere conto di un orientamento di mercato che spinge verso una nuova opportunità per il settore vitivinicolo Ue. L’offerta dai prodotti alcohol-free. “Nessuna norma potrà essere imposta ai viticoltori, perché la scelta finale su un’eventuale modifica del proprio prodotto rimarrà nelle loro mani, con i necessari cambiamenti dei rigidi disciplinari interni di produzione” Dop e Igp (che nel mondo vitivinicolo italiano si traduce in Docg, Doc e Igt, ndr).
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